Nell’inverno 1411-1410 avanti Cristo, un larice secolare cade in una foresta dell’alta Engadina. Quel tronco, assieme a un altro di diametro inferiore, viene dissotterato nel 1907 laggiù, sul limitare del bosco appena dietro il Kempinski Grand Hotel des Bains. Sono i due elementi base della cisterna di captazione della fonte di acqua ferruginosa risalente all’età del bronzo che da qualche anno si possono vedere, sorseggiando al contempo quella stessa acqua, dentro il Forum Paracelsus a St. Moritz-Bad (1772 m). Un padiglione termale tardo classicista tra i cembri e la neve dura di marzo che ispira molto gli appassionati di sci di fondo. Costruito nel 1866 secondo i piani di Felix Wilhelm Kubly (1802-1872), autore tra l’altro del Kurhaus di Tarasp sorto un anno prima e un anno prima ancora proprio del Grand Hotel des Bains, mi sembra subito quasi una chiesa. Senza campanile, gli elementi nella facciata non mancano: frontone, timpano, nicchie vuote simmetriche, vetrata a mezzaluna, marmo maculato, rosoni decorativi. Il pensiero per un attimo corre alla sacrale büvetta di Tarasp sulla sponda destra dell’Inn.
Alle spalle di questa forse più modesta ma rimarchevole Trinkhalle restaurata a regola d’arte, nel bosco che sale su ripido ai piedi del Piz Rosatsch, spunta sul serio una chiesetta neogotica conosciuta come chiesa francese o église au bois. Mutilato del braccio sinistro in legno che lo collegava al Kurhaus svanito e innestato a sua volta nell’odierno Kempinski, il padiglione ospitava la fonte Paracelsus. Scoperta nel 1815 e battezzata così in onore di Paracelso (1493-1541) perché il famoso medico e alchimista accennando all’acqua curativa di St. Moritz, nel 1535, scrisse che «fortifica lo stomaco al punto che un merlo potrebbe digerire un serpente». Paracelsus-Quelle si leggeva infatti un tempo su in alto, sotto il timpano, al posto della scritta sempre in maiuscolo e in rosso sinopia che si legge ora: Forum Paracelsus. Nuovo nome dell’edificio riaperto al pubblico dopo anni di abbandono dove entro adesso dall’ala destra di legno verniciato in grigio provenza. Questa parte è visitabile sempre, dalle sette di mattina alle otto di sera, mentre il corpo centrale provo ma la porta è chiusa. Sbircio dentro e le pareti lasciate scrostate hanno tutto il mio rispetto. In aprile queste mura ospiteranno qualche tela del Museo Segantini chiuso per lavori dall’undici marzo a metà dicembre.
Un corridoio scuro ed esoterico che mi ricorda per un secondo o due l’entrata mistica alle terme di Vals di Zumthor, è il primo assaggio del lavoro di Ruch & Partner. Quintetto di architetti con studio a St. Moritz capitanati da Hans-Jörg Ruch che i lettori fedeli hanno incontrato di sfuggita non molto tempo fa a Zuoz. Le pareti spesse in beton a vista richiamano il rossastro dei lasciti decennali dell’acqua su rocce eccetera. Pigmenti di ossido di ferro sono stati mescolati assieme al cemento, l’effetto è un color vinaccia sbiadito. Una decina di passi ed ecco, nel buio teatrale della stanza in fondo a destra, dietro una vetrina sapientemente illuminata, la sensazio-nale cisterna di captazione ricostruita. Prendeva polvere da più di un secolo nel Museo engadinese ed ora la messa in scena del 2014 rende giustizia a «uno dei più importanti ritrovamenti alpini della preistoria» secondo Jakob Heierli, emerito studioso autore di Urgeschichte der Schweiz (1901).
La superficie in larice dei due tronchi, scavati con chissà quali arnesi per ottenere dei tubi cilindrici a forma di grandi paccheri svasati impermeabilizzati all’epoca con pelle di pecora ai bordi, è commovente. Accanto, in un’altra vetrinetta, sono esposte due spade in bronzo. Trovate dentro il fango dei due tronchi, pare fossero offerte votive alle divinità precristiane dell’acqua minerale scoperta più di tremilaquattrocentotrenta anni fa. Le «tanto celebrate acque di San Maurizio» come scriveva il dottor Cesati di Vigevano nel 1674, adombrate forse in seguito dai fiumi di champagne del jet set. La Mauritiusquelle sgorga oggi in quattro zampilli da una bella fontana minimale illuminata fiocamente, risacralizzando così il luogo. Disseccata nel secolo scorso, la Paracelsusquelle, è stata quindi sostituita dalla sorgente originaria assaggiata da Paracelsus che prende il nome dal santo legionario tebano morto a Saint-Maurice in Vallese nel 287 dopo Cristo. Di fianco a quattro bicchieri d’epoca in mostra, nella penombra di una rientranza si prendono i bicchieri di carta con su il logo ripreso dai rosoni decorativi della facciata. Per sorseggiare l’acqua – alla quale sono state dedicate quattordici pagine nella poderosa Hydrographia helvetica (1717) di Scheuchzer e persino un paio di sonetti e madrigali di un certo dottor Malacrida – in faccia al larice attraverso il quale risaliva in superficie. Sa un po’ di sangue ma è bella fredda, mi piace. Dentro l’incavo della fontana dello stesso impasto di beton rosso stinto, si notano già le splendide tracce di rosso acceso, sacrificale, lasciato in cinque anni dall’acqua. Non a caso la chiamavano ova cotschna, acqua rossa, reperibile anche in due microtoponimi vicini. Un Piz e una via qui dietro, sul limitare del bosco fatato di cembri dove m’inoltro.