Qualcuno parlerebbe mai del portinaio Maria Longoni e del segretario Luisa Magni? No. E allora perché il (e non la) presidente Meloni? Perché quel maschile rivendicato fieramente da una donna? Probabilmente perché la presidente del Consiglio ritiene che la dimensione del potere vada declinata solo al maschile: dunque per quale ragione sbandierare con tanto orgoglio il fatto di essere la prima (o il primo) premier donna, se poi tradisce una mentalità rigorosamente maschilista sin dall’uso di un articolo? È legittimo considerare scorretta la sua scelta sia sul piano politico (2) sia sul piano grammaticale (3), benché l’Accademia della Crusca abbia sentenziato che sta alla persona decidere per il maschile o per il femminile. Pensate a una frase del tipo: «Il presidente del Consiglio si è recata a Parigi». Vi sembra corretta? Per fortuna nessun governo ha il diritto di legiferare per decreto sulle regole linguistiche. Il che permette a un rigoroso osservante della grammatica di usare il femminile quando c’è da usare il femminile, ignorando gli auspici della (e non del) presidente. La resistenza si fa anche con la lingua, nel senso di linguaggio ovviamente.
Racconta su «Avvenire» lo scrittore Ferdinando Camon (indimenticabile, ma dimenticato, il suo romanzo Un altare per la madre, 5+) che tempo fa presentando un libro si rivolse alla sua collega chiamandola «scrittrice». Lei si inalberò, gli strappò il microfono dalle mani e lo corresse con decisione: «Ma io pubblico con Einaudi e Feltrinelli, sono uno scrittore, non una scrittrice!». Si era offesa (2). Camon commenta giustamente che quella reazione gli sembrò e gli sembra tuttora assurda, tanto più che oggi qualsiasi editore preferisce pubblicare le donne, ben sapendo che le scrittrici (scrittrici) per il pubblico hanno più fascino degli scrittori maschi e rinunciare al sentirsi scrittrici significa rinunciare a quel fascino o vergognarsene. Capisco che una poetessa preferisca essere etimologicamente (latinamente) chiamata «poeta», perché il suffisso -essa ha acquisito qua e là una connotazione più che ironica. Ricordo che Eugenio Scalfari (3 per l’occasione, 5½ alla memoria) esortava i suoi giornalisti a evitare le «articolesse», definendo così sarcasticamente i servizi troppo lunghi e sbrodolosi: a parte il fatto che quel consiglio Scalfari non lo applicava mai a sé stesso (ricordate le interminabili «prediche» domenicali del direttore di Repubblica?), la deformazione dispregiativa sottintendeva la convinzione che l’eccesso di chiacchiera e l’incapacità di sintesi fossero attributi essenzialmente femminili.
C’è da scommettere che col tempo la studentessa diventerà «studente» (è un participio presente valido per il femminile come per il maschile), la professoressa diventerà «professora» e la dottoressa «dottora». Più difficile pensare che sull’onda dell’azzeramento dei suffissi la badessa possa diventare «bada» e la leonessa «leona», ma non c’è da disperare, la lingua riserva sempre delle sorprese più o meno piacevoli. Una delle sorprese più comiche è il «made in Italy» che adesso gode anche di un ministero tutto per sé: il Ministero delle Imprese e del Made in Italy. Comico perché reclama istituzionalmente l’orgoglio della bellezza italica con una formula inglese. Non ci sarà da meravigliarsi se al ministero della Cultura saltasse in mente di promuovere una campagna per il capolavoro del Rinascimento «The Last Supper» di Leonardo o Leonard McVinci. Si scherza, naturalmente. Finché si può. Ma quando «La Primavera» di Botticelli, modello supremo del cosiddetto Made in Italy, diventerà ufficialmente, anche a Firenze, «The Spring» ci sarà poco da ridere.
Intanto, il presidente Joe Biden (3) senza volerlo rischia di imitare il suo avversario giurato Donald Trump (2-), che chiamò Giuseppi (plurale?) il primo ministro italiano Conte: e congratulandosi per la nomina ha finito per storpiare il nome del nuovo capo del governo inglese. Non Rishi Sunak ma qualcosa tipo Rashee Sanook. E va bene che è un nome indiano non proprio familiare per un occidentale, ma non è detto che tutto nel mondo debba essere occidentale o angloamericano. Se non è puro e incolpevole analfabetismo, l’errore linguistico, anche quando non è un lapsus freudiano, nasconde spesso ragioni profonde che meritano di essere interpretate: disprezzo, senso di superiorità o di inferiorità, discriminazione, strafottenza, cialtroneria. Mai sottovalutare le parole, neanche gli articoli.