Il federalismo «en marche»

/ 26.06.2017
di Orazio Martinetti

«La Suisse sera fédéraliste ou ne sera pas». Era il 1944 e lo storico Werner Kägi ribadiva con fermezza l’alternativa mentre ancora oltre frontiera infuriava la guerra. In quegli anni cupi altri intellettuali si erano dati come missione quella di ripensare l’architettura del vecchio continente una volta deposte le armi. All’inizio poche e isolate voci: sparuti gruppi, come i confinati all’isola di Ventotene (Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi), economisti come Wilhelm Röpke, attivo a Ginevra, politici come Winston Churchill, autore, nel 1946 a Zurigo, di un vibrante discorso in cui preconizzava la creazione degli Stati Uniti d’Europa. Tutti guardavano alla Svizzera, paese rimasto neutrale, come ad un possibile modello per ricostruire le istituzioni dei paesi inceneriti dal conflitto: impresa non facile, giacché ogni potenza aveva alle spalle storie e tradizioni diverse, che non si potevano omologare o cancellare con un semplice tratto di penna.

Sull’ipotesi di una Confederazione-esempio per l’Europa si sono esercitati in molti, ma finora la riflessione non ha fatto breccia nelle aule di Bruxelles. Nell’Italia di «Roma ladrona» ci provò Gianfranco Miglio, per un po’ sostenuto dalla Lega di Bossi, ma poi il progetto sprofondò nelle sabbie mobili; altrove – come in Spagna – si pensa soprattutto a dividersi (v. Catalogna) e non a ri-amalgamarsi in base allo schema elvetico. Il federalismo non è, insomma, all’ordine del giorno. Le preoccupazioni, attualmente, sono altre: le economie anemiche, la disoccupazione cronica, la gestione dei migranti, l’avanzata dei movimenti nazional-populisti ostili all’euro e all’Ue.

Ma il federalismo è un cantiere aperto anche in terra elvetica. Sbaglia infatti chi lo ritiene un costrutto statico, eretto una volta per tutte, e non un meccanismo in perenne movimento, fondato su equilibri instabili. Non è una macchina perfetta, come alcuni ritengono osservandola dall’esterno, ma un meccano che non conosce quiete, attraversato da tensioni e rivendicazioni, spia di un percorso travagliato e non privo di punti di rottura (v. questione giurassiana). Lo Stato federale, varato con la Costituzione del 1848, fu prevalentemente una costruzione voluta dai radicali, espressione di un’élite imprenditoriale urbana e perlopiù protestante; a questa pressione centripeta cercarono di opporsi i cantoni cattolici, fautori del decentramento e delle autonomie. Alla fine dell’Ottocento l’opposizione cattolica si ritrovò tra le mani due strumenti formidabili per arginare lo strapotere radicale: i diritti di referendum e d’iniziativa.

Questo campo magnetico è tuttora attivo, basta dare una scorsa ai quotidiani. Non passa giorno senza che cantoni e Confederazione si disputino competenze e responsabilità. Crocefissi, velo islamico, sicurezza interna, profughi, salario minimo… a chi tocca? Chi legifera, chi applica, chi sanziona? Nell’ultimo volume pubblicato dall’editore Dadò nella collana «Le sfide della Svizzera» (Il federalismo svizzero, a cura di Sean Mueller e Anja Giudici), c’è una tabella istruttiva (p. 16) in cui appaiono le polarità nella suddivisione delle competenze. Da un lato i compiti che spettano perlopiù o esclusivamente ai cantoni (istruzione, cultura, lingue, polizia, sanità), dall’altro le prerogative della Berna federale, con in testa la politica monetaria (Banca nazionale), la difesa, le relazioni estere, le principali reti ferroviarie. Ma c’è un terzo polo, una terra di mezzo, una zona grigia in cui i contorni sfumano. Qui si entra nel campo delle funzioni contese, terreno quindi di possibili attriti tra chi legifera e chi applica. Sono aree che toccano argomenti come le elezioni/votazioni, i rapporti di lavoro, la protezione dell’ambiente, la pianificazione, la concessione della cittadinanza agli stranieri.

Perfino l’istruzione inferiore (elementari e medie), storico baluardo sovrano di comuni e cantoni, si ritrova esposta a pressioni crescenti. L’irruzione dell’inglese e la necessità di rispondere meglio alla mobilità intercantonale hanno spronato le autorità a coordinare tempi e programmi. Non una vera e propria centralizzazione, parola aborrita, ma un’«armonizzazione», ossia l’indicazione di un itinerario caldamente raccomandato.

L’altro capitolo delicato riguarda la competizione fiscale e la perequazione finanziaria: due forze divergenti, che potrebbero anche sfuggire di mano e che la Confederazione si sforza di contenere. Anche qui siamo in presenza di un sistema «en marche», bisognoso di continui bilanciamenti e revisioni.

Questo sul federalismo è il quarto volume di una collana in lingua italiana di politologia ideata e diretta da Oscar Mazzoleni; in autunno uscirà il quinto, dedicato all’economia elvetica nella globalizzazione. Non è una scommessa da poco. Il mercato per questo genere di saggistica, si sa, è esiguo. Ma potrebbe non esserlo se la «classe riflessiva» (docenti, giornalisti, politici, amministratori) manifestasse maggior interesse per il funzionamento e il destino delle istituzioni repubblicane; in parole povere per la sfera civica, il «vivere assieme», della nostra polis.