Capita, a volte, che la cassetta della posta sia affollata da richieste d’aiuto promosse da molteplici enti di beneficenza. La gran parte invita a un sostegno per offrire cibo, assicurare cure sanitarie, migliorare il tenore di vita delle popolazioni più povere, sparse in diverse zone del globo. E quasi tutte mostrano volti di bambini denutriti, afflitti, sconsolati. Perché bambini? Anche un adulto, ovviamente, soffre la fame, il freddo, o patisce per la mancanza di cure sanitarie; ma la ragione per la quale vengono scelti tristi volti infantili è intuitivamente evidente: la sofferenza di un bambino induce più facilmente alla compassione che quella di un adulto.
Questo mi ricorda un esperimento psicologico, condotto sottoponendo a un test parecchie decine di volontari e che diede risultati molto significativi. In sintesi, il test propone due casi: nel primo si legge di un uomo che riceve dall’Unicef una lettera in cui si chiede un contributo di 50 euro per salvare la vita di venti bambini fornendo loro sali reidratanti; nel secondo, un uomo al volante della sua auto vede sul ciglio della strada una bambina con una gamba sanguinante; si ferma e la bambina gli chiede di portarla all’ospedale. L’uomo considera che il sangue della bambina gli macchierà il sedile causando un danno di almeno 200 euro. In entrambi i casi alla persona soggetta al test viene chiesto se sia moralmente obbligatorio accogliere la richiesta. Ebbene, nel caso della bambina ferita quasi tutti rispondono che prestare aiuto è obbligatorio (non solo in senso giuridico, ma innanzitutto morale); nel primo caso, invece, solo una esigua minoranza si ritiene moralmente obbligata ad accettare la richiesta. Ora, confrontando i due casi, si vede facilmente che soccorrere la bambina è ben più costoso che aiutare i bambini disidratati, e dunque un mero calcolo utilitaristico farebbe propendere per la prima richiesta; invece non è così. Perché? Perché nel caso della bambina il coinvolgimento è diretto, il dolore è reale e immediatamente percepibile, tanto da far scattare quella reazione empatica che è alla base di tanti comportamenti di solidarietà altruistica.
È vero: noi siamo Naturalmente buoni, come dice il titolo di un bel libro dell’etologo Frans De Waal; ma, ovviamente, la nostra bontà non è sconfinata. Proprio gli studi di etologia hanno confermato che questa tendenza innata alla cooperazione altruistica noi la condividiamo con varie specie di scimmie antropoidi; e però, la base biologica ha i suoi limiti: noi siamo «naturalmente buoni» con il nostro «prossimo» – ossia, letteralmente, con chi ci sta accanto, le persone con le quali viviamo e abbiamo relazioni affettive. Come ha scritto Konrad Lorenz, «l’uomo non è malvagio fin dalla giovinezza. L’uomo è buono “quanto basta” per una società di undici persone».
Ma, poi, ai fondamenti biologici si sovrappone la cultura: ed è indubbio che nel corso di millenni, grazie alla cultura, la morale ha fatta molta strada. Se si guarda all’antichità classica, risulta evidente che il concetto di umanità è ancora ristretto e limitato ai concittadini (maschi): donne e schiavi sono considerati, anche da Aristotele, esseri inferiori, a metà strada fra uomini e bestie; e così pure i «barbari». Ed è un lungo e lento percorso quello che ha portato alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: quella universalità per la quale si riconosce uguale dignità a ogni essere umano, quali che siano la razza, il sesso, la condizione psicofisica, fu sottoscritta solo nel 1948 e sarebbe sembrata assurda a tutta la cultura occidentale precedente. Ancora nel 1866 una Istruzione del Sant’Offizio giustificava la schiavitù, precisando che «non ripugna al diritto naturale né al diritto divino che il servo sia venduto, comprato, donato». Poi, nel 1992, papa Wojtyla andò in Senegal e in Angola a chiedere perdono per l’«enorme crimine» del commercio degli schiavi fatto dai cristiani.
Siamo, dunque, nel periodo più civile della storia: almeno sul piano giuridico l’eguaglianza dei diritti è riconosciuta a ogni persona. Ma sul piano morale? La globalizzazione comporta anche l’anonimità crescente della società umana: e questo potrebbe indebolire la solidarietà spontanea radicata negli impulsi biologici. O, forse, la cultura può dilatare l’altruismo inducendo ad essere solidali anche con la sofferenza lontana di chi non ha volto; e le tante associazioni benefiche che diventano sempre più numerose potrebbero forse esserne una conferma. Forse.