Il diritto di restare

/ 23.05.2022
di Claudio Visentin

Viaggiare è un diritto? La Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a Parigi nel 1948, sembra affermarlo. Nell’articolo 13 leggiamo che «Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese». L’articolo 24 poi si preoccupa anche delle risorse necessarie: «Ogni individuo ha diritto al riposo e allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite».

Sulla carta è tutto chiaro, poi come sempre la realtà è più complessa. Per cominciare la Dichiarazione universale dei diritti umani riflette una visione occidentale e liberale del mondo; di fatto è un’estensione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e quindi discende dalla Rivoluzione francese del 1789. Anche per questo ha molto faticato a mettere radici nei Paesi islamici o comunisti. Inoltre, per sua stessa ammissione, la dichiarazione disegna un orizzonte ideale, lasciando ai singoli Stati la responsabilità di tradurlo in realtà; insomma si basa sulla buona volontà, non proprio un solido fondamento. 

Di per sé la Dichiarazione universale dei diritti umani non fa differenza tra un viaggio breve e l’emigrazione definitiva, ma è evidente che nel nostro tempo il diritto di migrare non è riconosciuto a tutti; si cerca semmai di limitarlo e regolarlo. L’idea che il viaggio sia un diritto ha invece preso piede. Nel 2017 Taleb Rifai, Segretario generale dell’Organizzazione mondiale del turismo (UNWTO – United Nations World Tourism Organization), sosteneva senza incertezze che viaggiare è un diritto umano «come quello al lavoro o alle cure mediche». Chiedeva semmai di farlo in forme sostenibili e rispettose, aiutando la crescita delle popolazioni visitate. E proprio l’idea di viaggio come diritto universale ha portato con sé il rapido sviluppo del turismo accessibile, ovvero tutti quei servizi necessari ai disabili per viaggiare. 

Il nuovo libro dell’antropologo Vito Teti (La restanza, Einaudi) arricchisce ulteriormente questo quadro, introducendo una nuova prospettiva. Perché c’è anche chi di partire non ha proprio nessuna intenzione e, se fosse per lui, non lascerebbe mai il paese dov’è nato. Altri hanno scelto di restare in una periferia difficile per cambiarla, impegnandosi nel sociale. Altri ancora si sono inventati una nuova vita in qualche valle remota, lasciando magari una grande città, e adesso lottano ogni giorno con la mancanza di servizi essenziali: negozi, scuole, ospedali, trasporti, Internet. 

Chi resta, per esempio le donne degli emigranti, deve trovare nuovi equilibri di vita, dare un nuovo senso a luoghi ed esperienze quotidiane. Restare non è una pigra accettazione del proprio destino, è spesso una scelta, difficile e lacerante, frutto di volontà e spirito d’iniziativa. Partire e restare potrebbero essere insomma i due volti dello stesso fenomeno. Al diritto a partire corrisponderebbe allora un nuovo diritto a restare. Chi resta è molto meno visibile di chi parte, non ha su di sé l’attenzione dei media, non è al centro di controversie e discussioni. Ma potrebbe coltivare conoscenze preziose per il futuro.

Per esempio molti ritengono – con ottime ragioni – che il cambiamento climatico sia la vera emergenza del nostro tempo, prima e più della pandemia o della guerra. In questa prospettiva, i piccoli gesti quotidiani di chi resta – contrastare con efficacia gli incendi e le inondazioni, razionalizzare l’uso dell’acqua, curare il suolo eccetera – potrebbero diventare improvvisamente essenziali. Al contrario il tempo dei grandi viaggi internazionali potrebbe essere vicino alla fine. Così almeno crede Vito Teti: «Un giorno, forse, quella appena passata sarà ricordata come l’epoca dei viaggi, rispetto a un nuovo presente in cui viaggiare, spostarsi, fare turismo diventerà sempre più complicato, difficile, risolto in altri modi. Finita l’esplosione del viaggiare per diporto, che pure significava scambi, incontri, conoscenza, ci si troverà, forse, a fare i conti con sé stessi e si dovranno inventare nuove ragioni di restare».