Il diplomatico birmano ribelle

/ 05.04.2021
di Paola Peduzzi

Sono oltre cinquecento i morti in Birmania da quando il primo febbraio scorso c’è stato un colpo di stato – almeno 35 sono bambini, dice l’Unicef – e le immagini che arrivano dalle proteste sono ogni giorno meno digeribili. Il regime dei militari ha organizzato anche una parata per festeggiare le forze armate e la resistenza contro l’occupazione giapponese durante la Seconda guerra mondiale. Sembrava la scena di un film tanto l’ordine e le canzoni della manifestazione stonavano con il caos che va avanti da due mesi, alimentato da quegli stessi militari che si autocelebravano. Il capo della giunta, Min Aung Hlaing, vestito di tutto punto con la divisa bianca e le mostrine, è anche stato più minaccioso del solito. State attenti voi che protestate, ha detto, potreste finire con un proiettile in testa. Esattamente come la parata, sembrava che stesse parlando di un altro luogo, di un altro Paese, non dei colpi alla testa sparati dalle forze che comanda lui stesso.

La giunta birmana ci ha «sequestrati» tutti in un paradosso. Pur avendo messo Aung San Suu Kyi in prigione – lei e molti esponenti della Lega nazionale per la democrazia, il suo partito che a novembre aveva vinto le elezioni – e pur avendo da quel momento escluso ogni possibilità di dialogo intensificando sempre più la repressione, continua a comportarsi come se stesse esercitando un potere legittimo, perché in fondo la Birmania non è una democrazia, perché in fondo anche San Suu Kyi faceva parte del Governo. Complice il deteriorarsi in Occidente della figura stessa della «signora», come viene chiamata da tutti, a causa delle violenze sulla comunità dei rohingya, per settimane alcuni hanno persino avuto delle remore a definire quel che stava accadendo un colpo di stato. «Tecnicamente non è così», dicevano molti esperti, come se l’annientamento dell’opposizione e gli spari sulla folla fossero una questione tecnica, come se la transizione verso la democrazia ci impedisse di vedere come finisce, in un colpo secco, una democrazia con ancora tantissimo da fare. La parata di sabato 27 marzo, giorno in cui finisce anche l’anno lunare birmano e quindi sarebbe davvero un giorno di festa, ha dato forma a questo paradosso, ed è per questo che la strage che c’è stata quasi in contemporanea ha scioccato tutto il mondo. Più di cento morti, immagini raccapriccianti, anche tecnicamente ora è un colpo di stato.

Come spesso accade in queste storie di violenza, potere e transizioni complicate, il primo a non farsi «sequestrare» dal paradosso è stato un birmano che come mestiere rappresenta il suo Paese all’estero, in particolare alle Nazioni unite. Kyaw Moe Tun, cinquantuno anni, gel nei capelli, diplomatico di carriera, il 26 febbraio è andato al Palazzo di vetro di New York per tenere un discorso sullo stato delle cose nel suo Paese: tutti si aspettavano una difesa dell’operato dei militari, essendo lui il rappresentante della giunta. Senza avvertire nessuno e senza un minimo di incertezza nella voce, Moe Tun ha denunciato in dodici minuti «i crimini contro l’umanità commessi dalla giunta ai danni del popolo birmano». Dopo aver chiesto il sostegno della comunità internazionale – non ci lasciate soli, non distraetevi, abbiamo bisogno di voi – ha pronunciato l’ultima parte del discorso in birmano, voleva farsi capire bene dai suoi datori di lavoro, e alla fine ha alzato le tre dita in alto, il simbolo della protesta contro i militari.

Poco dopo la giunta ha licenziato il suo diplomatico e ha nominato il suo vice, il quale però si è dimesso anche lui: così per l’Onu ora l’ambasciatore continua a essere Moe Tun. Moe Tun, che nel 1988 voleva partecipare alle rivolte studentesche ma i suoi genitori glielo impedirono, rappresenta bene la cosiddetta transizione birmana: ha sempre lavorato con i militari e, quando è arrivata San Suu Kyi con la sua proposta di compromesso e collaborazione, ha sposato la sua causa. Ma la convivenza è stata sempre scomoda, perché a livello locale il regime ha sempre cercato di boicottare le iniziative dei cosiddetti civili. «Tutte le sconfitte che abbiamo avuto sono sempre state determinate dai militari», ha detto Moe Tun.

Si sapeva che la convivenza era fragile, non che ci fosse un continuo boicottaggio interno. O meglio, non abbiamo voluto vederlo e ci siamo persi invece nel denunciare la trasformazione di San Suu Kyi, da paladina del popolo birmano a collaborazionista della giunta. Eppure, nonostante i morti, Moe Tun non vede un’alternativa alla coabitazione: spera ancora in un dialogo, chiede a Stati uniti e Cina di patrocinarlo, dice che il ribaltamento della giunta non ci sarà, si può soltanto provare a riavvicinarsi. Considerando che Stati uniti e Cina non vanno d’accordo più su nulla, la convivenza è tutta da costruire e da garantire.