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Il corpo materno

/ 19.10.2020
di Silvia Vegetti Finzi

Cara Silvia, 
proprio pochi giorni fa ho compiuto i 40 anni di vita e i 12 di matrimonio e, dopo una bella festicciola in famiglia, mi sono svegliata con una voglia strana, ma forte e incontrollabile, di stringere tra le braccia un neonato. Non l’avevo mai provata prima: da bambina non ho giocato con le bambole, da ragazzina non mi sono mai immaginata mamma, da adulta ho pensato ad altro. Quando mi sono innamorata dell’uomo che ho sposato, ci bastavamo: per me la coppia era fatta di due e non avrei immaginato che un giorno mi sarebbe mancato il tre.
So già che mi proporrai la fecondazione medicalmente assistita o l’adozione, ma a me non va bene né l’una né l’altra. L’idea di una gravidanza mi terrorizza, temo che il mio corpo, molto minuto, si deformi, che il parto mi laceri, che l’allattamento mi divori. Quello che desidero è un bambino da stringere tra le braccia e che assomigli a me e a mio marito, senza che per forza sia io a «fabbricarlo». Ti assicuro che saremo capaci di volergli bene, di volere il suo bene. I mezzi economici non ci mancano e quelli affettivi neppure. Inutile accusarci di egoismo, narcisismo, consumismo e mille altri «ismi», siamo genitori come gli altri, con i nostri limiti e le nostre capacità. Spero tanto che saprai capirci. / Lidia


Sì cara Lidia, ti capisco, anche se non so che cosa ti autorizzi a dire «noi», a parlare al plurale. Sei sicura che tuo marito, il futuro padre, condivida un progetto così intimo e personale? Il tuo desiderio, non a caso sopraggiunto il mattino, frutto probabilmente di un sogno, sorge dal corpo, un corpo potenzialmente generativo che improvvisamente esprime un desiderio vitale, quello di sopravvivere a se stesso di continuare a esistere nella catena delle generazioni, anche dopo la morte. Ma il desiderio inconscio non è razionale e, come vedi, veicola tutte le nostre contraddizioni, i «vorrei e non vorrei», di cui canta Zerlina nel Don Giovanni di Mozart. Tu vorresti ottenere il prodotto generativo senza generarlo, come un dono gratuito che i bambini ricevono a Natale. Così facendo accogli solo la parte mentale di una richiesta di maternità che coinvolge tutto l’organismo nella misura in cui la mente è corporea e il corpo è pensante. Come cerco di mostrare nel mio ultimo libro L’ospite più atteso, non possiamo scindere l’unità corpo e mente senza impoverire la nostra identità, senza rinunciare alla gioia di «dare alla luce» utilizzando tutte le nostre potenzialità, le nostre risorse.

È vero che nell’adozione non c’è coinvolgimento del corpo materno ma neppure sfruttamento di un’altra donna. Anzi, l’accoglienza di un bambino che si trova in stato di abbandono presuppone una solidarietà femminile che manca completamente nel ricorso di un utero «a nolo». 

Il tuo desiderio, non accettando rinunce e mediazioni, obbedisce all’onnipotenza dell’inconscio, alla pretesa infantile di volere tutto e subito. Ma non sei più bambina e il desiderio adulto, per essere morale, deve tener conto del senso di responsabilità verso se stessi e verso gli altri. Innanzitutto non puoi ignorare che il tuo progetto coinvolge più persone: il bambino, il padre, la madre committente e la madre surrogata. Ognuno dei quali è soggetto di diritti e di doveri. Il bambino ha diritto di avere un padre e una madre, non due, di essere contenuto nel corpo della donna che lo ha desiderato e di passare dal grembo alle braccia materne senza viaggiare come un pacco postale. Difficile valutare il trauma che i nati per procura subiranno dall’essere abbandonati dalla donna che li ha contenuti per nove mesi e alla quale sono connessi da un attaccamento istintivo, non generico ma selettivo: ogni neonato vuole la sua mamma non una mamma.

In questi mesi, per l’ennesima, nefasta conseguenza del Covid, migliaia di neonati, nati all’estero da utero in affitto, giacciono parcheggiati in strutture di accoglienza provvisoria in attesa che cessi il lockdown internazionale. Solo allora potranno essere portati a destinazione. Per l’Europa, centro di questa situazione aberrante è l’Ucraina ma è ormai un business planetario.

La prima vittima della gravidanza per altri è la madre surrogata, una donna povera e sola, anche se ufficialmente coniugata, costretta dall’indigenza a contenere, partorire e abbandonare creature – sino a cinque – che non saranno mai sue. Una pratica che, umiliando la dignità delle donne, le trasforma in anonimi strumenti di reddito, in cose acquistabili sul mercato delle merci. Siamo tutte noi a doverci responsabilizzare per sottrarre le più deboli a soprusi ancor più ingiusti della schiavitù. Come esorta Papa Francesco: restiamo umani! Un richiamo che non avremmo voluto sentire dopo secoli di civiltà.