«È ormai venuta l’ora di andare: io a morire, e voi, invece, a vivere. Ma chi di noi vada verso ciò che è meglio, nessuno lo sa, solo il dio lo sa». Parole dell’apologia, della difesa di Socrate davanti alle insulse delazioni dei concittadini, così come ce le racconta, da ventitré secoli, l’allievo Platone, forse il prediletto. Le parole di Socrate danno forti indicazioni sul senso dell’aldilà. E persino sul senso dei tatuaggi e dei piercing, continuare a leggere per credere.
Quanta speranza, quanto felice ottimismo nelle parole di Socrate, quanta ironia. Intesa come la intendiamo oggi: razza di idioti, sono io quello che vince, che va verso un premio sicuro; siete voi che rimanete qui nelle vostre miserie e poi nell’aldilà non sarete certo premiati, meschini oggi e miseri domani. Oppure ironia nel senso greco dell’eironeia, dello sminuirsi perché il riconoscersi inferiori sia in realtà segno di superiorità. Come – dice Aristotele nell’Etica a Nicomaco – come gli spartani, che si vestono con abiti grezzi e scomodi per significare il loro amore alla povertà, proprio loro che sono in verità ricchissimi grazie all’oro conquistato in guerra.
«Ma chi di noi vada verso ciò che è meglio, nessuno lo sa, solo il dio lo sa»: le vibranti parole di commiato che Socrate rivolse agli Ateniesi al termine del suo processo, potrebbero essere segno di come i Greci intendevano l’aldilà: un’altra vita, forse, ma non migliore di questa, forse – Socrate poche righe prima aveva detto di «un lungo sonno», un «sonno senza sogni», «un sonno da gran re», o di passeggiate nei Campi Elisi come possibilità valide entrambe. Niente di strano, non fosse che Platone fa dire allo stesso suo maestro ben altro, nella Repubblica, e anche nel Fedro: l’anima è certo immortale, l’attende un destino di premio o punizione, e tante possibili reincarnazioni fino a una sorta di divinizzazione, che spetterebbe al filosofo, colui che più di tutti si è avvicinato alle cose divine.
E però il testo sacro della grecità tutta, l’opera di Omero, ancora una volta smentisce e riporta a una ben diversa e trista concezione della sopravvivenza dell’anima, se di anima si può parlare, quando sappiamo che il termine psyche fa riferimento al soffio vitale che anima i corpi. Nell’undicesimo libro dell’Odissea, Achille, ormai nell’Ade, rifiuta gli omaggi del vivo Ulisse, che riconosce al figlio di Teti una superiorità rispetto agli altri morti: «Non lodarmi la morte, splendido Odisseo», perché «vorrei essere un bifolco, servire un padrone», piuttosto che «dominare su tutte l’ombre consunte». Privo di ogni dignità, ma sotto la luce del sole, vorrebbe essere Achille, lo stesso che nell’Iliade aveva dedicato a Patroclo imponenti cerimonie funebri, e grida e preghiere: per ottenere cosa? Per farlo vivere nella memoria? Per strappare agli dèi un destino diverso?
Un classico sull’argomento, Psiche. Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci di Erwin Rohde (Laterza), permette di approfondire l’argomento mai risolto. Concluso nel 1893, diciassette anni dopo La nascita della tragedia di Nietzsche, il testo riprende l’intuizione che vuole il dionisiaco come figura di continuità tra le religioni misteriche e quella olimpica, tra un mondo di uomini destinati alla terra e uno di dèi felici di mischiarsi agli altri in figure come quelle di Dioniso, mezzo uomo e mezzo dio. Alle radici della nostra civiltà non ci sarebbe quindi l’opposizione tra la carnalità di Dioniso e la razionalità di Apollo. L’idea è invece quella di una evoluzione, di una nuova modalità per potere avvicinare il divino. Il semi-dio in fondo è un metaxù, un essere di mezzo come i dèmoni, a metà strada tra l’oltresensibile e la nostra vita di quaggiù, tra l’eterno e il temporale. E che cosa cercano il ragazzo tatuato, la fanciulla coi piercing? Che cosa se non dimostrare che il corpo offre una testimonianza che va oltre la sua normale vita?
Io credo invece che questi atti indichino una cancellazione, come un tentativo di distrarre l’attenzione dall’ingombrante sé del nostro corpo. Si può ottenere in tanti modi, anche indossando abiti o abbronzature o trucchi, ma gli aghi del tatuatore e i ferri che perforano hanno anche un senso punitivo. Altro che Quaresima, altro che purificazione: i Greci tentarono la via della sola anima, con esiti alterni, come abbiamo letto. A noi tocca il paradosso dell’epoca del nudo esibito e disinibito, che trova mille modi per nascondere ciò che potrebbe senza scandalo mostrare.