Il coraggio (e il bello) di ripartire

/ 06.07.2020
di Aldo Cazzullo

Il sindaco di Milano Beppe Sala ha lanciato l’allarme: «Non esageriamo con lo smart working»; altrimenti la città si desertifica. L’avrà fatto per salvare l’industria edilizia e il mercato immobiliare: se gli uffici sono vuoti, varranno molto meno. Però tutti i torti non li ha.

Si sente dire che a casa si lavora meglio, e si evitano lunghi tempi di percorrenza per andare e tornare dall’ufficio. Ma a giudicare dalle code bibliche di questi giorni, con le autostrade bloccate in Liguria – e spesso anche tra Milano e Bologna -, non si direbbe che lo smart working abbia smaltito i disagi del pendolarismo; anche se molti stanno semplicemente tentando di andare in vacanza. Più in generale, nei mesi di clausura che ricorderemo per sempre abbiamo tutti – italiani, svizzeri, europei - sperimentato nuove forme di vita e di lavoro. Ci siamo resi conto che molte delle cose che facevamo erano inutili; comprese tante riunioni e qualche viaggio.

Tuttavia, parlare con un interlocutore via skype non è come farlo guardandolo negli occhi; così come stringere una mano o abbracciare una persona non è come darle una gomitata. Lavorare da casa può essere comodo; ma può essere stressante. La maggior parte dei lavori e delle opere nasce dal confronto delle idee, dal contatto con i colleghi, dall’incontro con il pubblico. Tutto questo è necessariamente limitato in tempo di pandemia; ma con il ritorno alla normalità è giusto ripristinare anche quegli aspetti della vita comunitaria utili a lavorare meglio. La socialità degli esseri umani non si limita agli aperitivi e alla movida.

C’è poi l’aspetto legato all’edilizia, ai servizi, ai bar e ristoranti, ai luoghi rimasti desolatamente vuoti in questi mesi. Se da una parte negli ultimi anni si è talora esagerato in gigantismo, dall’altra non possiamo trasformare i nuovi quartieri in monumenti all’inutilità. Milano in questi giorni ha angoli surreali. I grattacieli di Citylife (e di piazza Gae Aulenti) sono stati un grande business edilizio, gli attaccanti dell’Inter e gli influencer della rete ci si trovano benissimo; ma senza gli impiegati, a casa in smart working, l’indotto è fermo: i bar, i ristoranti etnici, le paninoteche incassano un quinto del normale. Gli spazi pensati per essere percorsi dalla vita, dal lavoro, dalle energie sarebbero vuoti e zitti, se non fosse per qualche studente che non ha una scuola dove andare.

È evidente che la normalità non può essere questa. Ci sono norme da rispettare; ma il Paese deve ripartire. Prendiamo ad esempio le boutique e i negozi di abbigliamento. Con le nuove regole sanitarie, dopo la stagione perduta e due mesi di esclusiva delle vendite on line, la ripartenza è in effetti particolarmente complicata. Un motivo in più per ritrovare il gusto di girare i negozi di Milano e delle altre città, guardare le vetrine, parlare con titolari e commessi, provare i vestiti (e comprarli, chi può); fare insomma quello che in rete è impossibile.
In generale, questo cauto decongelamento della vita va assecondato. Bisogna lavorarci; perché la nottata non passa da sola. Certo, riaprire è complesso, e molti rischiano di farlo in perdita. Ma non si può tenere tutte le serrande abbassate con il cartello «senza gli aiuti del governo si muore». Gli aiuti del governo sono necessari, è ovvio. Ma serve anche il coraggio di ripartire.

Prendiamo i ristoranti. Nel centro di Roma molti sono ancora chiusi (come quasi tutti i grandi alberghi; anche se ha riaperto un hotel-simbolo come il de Russie). Ma molti ristoratori non si sono mai fermati. Hanno organizzato il servizio a domicilio, si sono tenuti in contatto via Whatsapp con la clientela, ora hanno riaperto; e sono pieni. È chiaro però che non basta alzare una serranda per vedersi riempire il locale. I potenziali avventori devono vedere che il ristorante è aperto, che è sicuro, che è invitante; e poco per volta torneranno. C’è qualcosa di familiare e nello stesso tempo di grandioso, in questo sforzo (quasi) comune di rialzarsi in piedi, di rimettersi in moto, di ritrovare il gusto del lavoro ben fatto e il rispetto per gli altri; che è sempre anche rispetto per se stessi.

Poi, certo, molte cose non torneranno come prima. Abbiamo imparato a usare di più e meglio la tecnologia, a risparmiare tempo e denaro, ad aumentare la produttività. Ma il bello di essere europei è anche il calore umano della vita comunitaria, è anche l’abitudine di vivere in spazi condivisi, nei centri storici, nei luoghi d’incontro; molti dei quali rischiano di chiudere, a causa appunto della mania del lavoro a distanza, e dell’egemonia dell’e-commerce, con i clic a distanza che prendono il posto del vecchio caro shopping. E questo calore delle relazioni umane nessun computer, nessun wi-fi ce lo potrà mai restituire.