Oggi, ha ancora un senso la critica letteraria, la critica in genere? Trovo questo grido d’allarme nel sito di una piccola casa editrice, Gilgamesh edizioni: «Sebbene oggi quasi nessuno se lo ricordi troppo, in passato, non era solo il portafogli delle grandi case editrici a stabilire l’ordine gerarchico nelle vetrine delle librerie, bensì l’opinione delle personalità più attente al dibattito sulla letteratura e sulla sua decifrazione ed interpretazione. Per apportare un esempio tra i più noti, fu James Joyce il primo ad apprezzare Senilità e a segnalare ai critici francesi Benjamin Crémieux e Valéry Larbaud La coscienza di Zeno, che, pubblicata a spese dell’autore due anni prima, aveva ripetuto il totale insuccesso dei due romanzi precedenti. L’eco di questa segnalazione giunse in Italia e spinse Montale a chiedere al letterato e critico triestino Roberto Bazlen una copia delle opere di quell’autore ancora sconosciuto, per poi recensirlo positivamente, portandolo finalmente all’attenzione del grande pubblico… Quel periodo, quello dell’era della critica, appare ora remoto, quasi irriconoscibile. Oggi, la critica letteraria sembra non esistere più».
Nell’interrogarsi sul ruolo della critica letteraria, Claudio Giunta, che insegna Letteratura italiana all’Università di Trento, scrive: «Come lettore, mi aspetto che il recensore entri nel merito, che riassuma e giudichi, e mi faccia sentire la sua voce. Non amo i giudizi non argomentati, soprattutto quando riguardano cose complicate o persone la cui opera o il cui pensiero non possono essere sintetizzati in uno slogan; e soprattutto quando sono giudizi negativi. Invece la contrazione degli spazi, nei giornali di carta (poche pagine per la cultura, troppe novità di cui parlare, molte pressioni da parte delle case editrici), ha portato alla proliferazione di queste schedine, che non servono a niente, o al fiorire di pareri immotivati e perentori».
Ha ancora un senso la critica? O è irrimediabilmente in crisi? La cosa curiosa è che i termini critica e crisi hanno la stessa radice. Derivano entrambi dal verbo greco krino, che significa «separare». In origine indicava il procedimento della trebbiatura. In altri termini, la distinzione della parte buona da quella cattiva del raccolto. Il verbo krino porta con sé dunque i significati di scelta, interpretazione, discernimento, soluzione, disputa, giudizio. È implicito un lavoro di selezione, in questo caso fisico, che presuppone una conoscenza che è frutto di un’esperienza sul campo, senza la quale non è possibile compiere un’accurata separazione tra quello che si ha di fronte. È rilevante la presenza di due parti: questa duplicità presuppone una krisis. L’operazione critica consiste in un giudizio che non intacca il significato dell’opera ma la arricchisce di nuovi significati: la inserisce in una rete di confronti, associazioni e interpretazioni.
La critica letteraria sembra, in sé, molto emarginata, almeno dal punto di vista della «critica militante». Si preferisce, sui media, far recensire romanzieri da romanzieri, poeti da poeti, rischiando e talvolta enfatizzando un chiacchiericcio convenzionale. È del resto ormai di parecchio tempo fa il provocatorio saggio Eutanasia della critica di Mario Lavagetto (2005), che ne proclamava una morte periodicamente annunciata almeno a partire dalla fine del secolo scorso. Poi è arrivato internet a cambiare ancora le carte in tavola, spesso a confondere. Chi gestisce un blog letterario è preso fra l’incudine dell’esigenza di pubblicare contributi di qualità, forniti per giunta gratis, e il martello di dover far uscire almeno un intervento al giorno per garantire visibilità e aggiornamento. Non può uscire dalla contraddizione che lo stesso medium crea, perché pubblicare interventi ogni giorno comporta la partecipazione del numero più alto possibile di aspiranti critici non ancora affermati (e spesso, com’è ovvio, di valore diseguale). Perché, se da un lato il real time, sul piano di fruizione e condivisione, può rilanciare un articolo come un boomerang da un tweet a un altro – la condivisione culturale è una cosa che si dà solo su internet, al momento –, dall’altro la velocità con la quale la piattaforma web produce contenuti letterari rischia di snaturalizzare il discorso critico, che, in realtà, richiede distacco e studio.
In genere, si pensa, come avrebbe detto Totò, che il compito del critico sia quello di criticare, cioè «parlare male». Non è vero niente. Il compito del critico, se mai, è un altro: quello di segnare la sua presa di distanza dal circo mediatico. Se è bravo, come lo era Achille Campanile, riesce anche a usare una materia «vile» come la televisione per un esercizio di immaginazione e di intelligenza. La vera critica può insegnare poco: non è normativa, non è orientativa, non è pedagogica. Diciamola tutta: non serve a nulla. Ma insegna una sola cosa: l’esercizio critico. L’analisi di un testo diventa uno spunto, un attivatore della curiosità di chi legge o di chi guarda. C’è una definizione di Ardengo Soffici che si attaglia perfettamente a questa preziosa «inutilità»: «Compito [della critica] non è solo quello di apprezzare e fare apprezzare altrui il buono ed il bello, bensì e massimamente, quello di non prender per bello e buono il brutto e il cattivo; insomma, non tanto di distinguere tra l’ottimo e il pessimo, quanto di riconoscere il vero dal falso».
Il compito della critica
/ 13.07.2020
di Aldo Grasso
di Aldo Grasso