Oggi viaggio a Viggiù. Mai stato in questo angolo di mondo in provincia di Varese quasi al confine con la Svizzera, ma sempre immaginato un po’ attraverso le pagine di Aldo Nove che è nato lì. A tre chilometri da Arzo dove sfreccio via in vespa. Via Elvezia, Saltrio, ed eccomi alla meta. Dopo la rotonda lo trovo al volo, cancello aperto. Il cimitero vecchio di Viggiù (461 m) è chiuso tutto l’anno tranne il periodo dei morti. È un cimitero sconsacrato la cui prima sepoltura risale al 1820 e l’ultima al 1912.
Ha fatto notizia, qualche anno fa, dopo un servizio di Mistero andato in onda su Italia 1. Un reportage-baggianata con tanto di falsi fuochi fatui e la sagoma di una donna fantasma inquadrata con le telecamere a infrarossi alle spalle della patetica conduttrice ansimante. Da brividi, invece, le storie di fantasmi raccontate dai vecchi del paese, come quella del fantasma di una certa Eutilia che per amore si è uccisa con il veleno per topi.
Marea di foglie morte, lapidi in pietra arenaria delle cave locali da scoprire a poco a poco, tanti tigli tutti novantatreenni, il sole che filtra tra i rami un pomeriggio verso fine ottobre: il primo colpo d’occhio è una meraviglia. «Una testimonianza intatta di arte sepolcrale dell’Ottocento lombardo», questo il sottotitolo del libro Il Cimitero Vecchio di Viggiù (2005) scritto da Francesca Nicodemi con la collaborazione degli allievi del liceo artistico Frattini di Varese. Inoltre qui, benché alcune sculture di pregio siano state messe in salvo a Villa Borromeo, sono sepolti diversi scultori di Viggiù.
Terra di scultori e picasass a forte vocazione lapicida, come Enrico Butti, conosciuto in occasione dell’elefante di Bregazzana e che tra l’altro abitava proprio qui di fronte. Colpisce il volto enigmatico di Adalgisa Farè Cassani (1876-1908) adagiata in vestaglia sul fianco sinistro. La donna a figura intera, scolpita nella pietra bianca di Saltrio ingrigita dal tempo e dalle intemperie, è recintata dai guizzi floreali liberty in ferro battuto arrugginito. Ogni tiglio, come altri alberi in altri parchi della rimembranza, ha una targhetta con su il nome di un caduto della prima guerra mondiale: Angelo Guerra è tutto un programma. Incrocio poi edera e muschio che abbelliscono le tombe abbandonate, mentre le siepi di bosso fanno un po’ labirinto.
«Giardino esoterico» è stato anche definito dalla docente del Liceo Frattini autrice del libro, tirando in ballo, oltre alla solita simbologia massonica, anche una presunta deambulazione massonica obbligata: come nel tempio, si entra passando dal nord verso oriente, uscendo poi a occidente costeggiando il sud. Barra a dritta invece e avanti tutta fino alla cappella funeraria diroccata in fondo, disegnata da Giacomo Moraglia, lo stesso architetto milanese del municipio di Lugano. Lì a sinistra c’è il grande angelo orante e triste di Luigi Buzzi Giberto. Girando poi come nel baseball, agguanto con gli occhi clessidre alate, un paio di pungitopi, imprecisati miceti cimiteriali, tre cappelle di famiglia in pietra piombina una delle quali con trompe-l’œil paesaggistico di cipressi piegati dal vento prima del temporale estivo, papaveri scolpiti, croci templari, due bassotti attribuiti a Butti.
Faccio un salto all’ex casa Butti, oggi biblioteca comunale, dove incontro Francesco Rizzi, bibliotecario-enciclopedia vivente viggiutese che si appresta a mostrare la gipsoteca di Butti e poi Villa Borromeo a una coppia di americani. Lei è professoressa all’università di Pittsburgh ed esperta di Butti. Accompagno il trio. Nell’ex scuderia spicca una falena cesellata sul timpano della stele in pietra grigia rossetta di Antonio Galli (1812-1861), uno degli scultori sepolti nel cimitero vecchio, lungo le mura a nord. In un salone affrescato della villa, appare La Modestia di Antonio Bottinelli (1827-1898) – anche lui sepolto nel cimitero – fino al 2000 dentro la neopalladiana cappella Corti, quella del trompe-l’œil.
Nell’orangerie si trovano il busto autoritratto di Giosué Argenti (1819-1901) e un angioletto, entrambi in marmo di Carrara e un tempo posti sopra i cippi dello scultore e della figlioletta accanto. Me li mostra il gentile bibliotecario, subito all’entrata, di fronte all’Adalgisa. Da lì mi porta al cippo modesto di Luigi Buzzi Leone (1823-1909): scultore animalista vissuto a Parigi. Sulla stele nel muro a sud, leggiamo poi un epitaffio di uno che è morto schiacciato da un masso nella sua stessa cava. Finora tutti i volti hanno floride barbe appuntite e Santino Pellegatta (1825-1901), artista e autore di Tre giorni a Viggiù (1894) – «guida storica-artistica-descrittiva» – non fa eccezione. Alcuni volti sono stati rubati lasciando un vuoto circolare nella pietra, non male la stele-puzzle lì per terra.
Il due novembre, giorno dei morti, alle sette di sera, non perdetevi il cimitero illuminato con le candeline e alcune letture, quest’anno dalle Metamorfosi di Ovidio. Lo spettacolo per ora sono due foglie che cadono.