Cari lettori, ci siamo lasciati con gli oggetti morti di Massimo Mantellini e, come promesso, a questi torniamo e per un semplice motivo: non si tratta solo di oggetti. Il libro nelle sue riflessioni e nelle sue traiettorie alla fine prende una piega inaspettata e arriva a parlarci di silenzi, di stelle e di cieli. Di cose che non sentiamo e non vediamo più perché immersi nella guerra dell’attenzione, nell’epoca della distrazione e delle sollecitazioni continue. Prima c’erano l’inquinamento acustico e quello luminoso poi sono arrivati i telefonini. Vi ricorderete come della «Sindrome dello sguardo basso» parlò tempo fa già Michele Serra nel suo libro Ognuno potrebbe, in cui la fidanzata del protagonista finisce al Pronto Soccorso per colpa di una strana malattia definita appunto Sindrome dello sguardo basso. Chi è afflitto da questa malattia «può venire investito da un camion o precipitare in un buco sul marciapiedi semplicemente perché la testa è china sullo schermo dello smartphone invece di guardare avanti». Grazie a diversi studi e all’aumento del numero di investimenti stradali è ormai risaputo che la distrazione cognitiva tra i pedoni data dall’uso dello smartphone riduce la consapevolezza del rischio e aumenta i comportamenti pericolosi. A Honolulu chi passeggia con gli occhi incollati sul cellulare, oltre a non vedere le stelle che da quelle parti devono essere davvero belle, si prende una bella multa.
Sta di fatto che per ogni cosa che lasciamo e una nuova che conquistiamo, nel passaggio dall’una all’altra, avviene una perdita. Non solo visiva, tattile ma di relazione e significato. Dice Mantellini «esiste un legame indissolubile fra gli oggetti e le persone che li hanno posseduti, una relazione che si sostanzia in piccoli segni fisici». E non tutte le perdite sono uguali. Posso fare a meno di una cartina geografica cartacea in cambio di Google map ma non posso fare a meno del cielo stellato sopra di me. «Non devo attendere una notte serena, né alzare la testa, per osservare il cielo. L’ho dietro a me, sottomano e sulle palpebre. Il cielo mi avvolge ermeticamente e mi solleva dal basso» recitava Wislawa Szymborska nella sua poesia Il cielo. Mantellini non chiama in causa la poesia o la filosofia, se lo facessimo ci racconteremmo di cieli stupendi per ore e ore, ma l’arte e in particolare due opere di Anselm Kiefer pittore e scultore tedesco: Stelle cadenti e Il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me. Nel primo c’è un uomo sdraiato sotto un cielo scuro con tante piccole luminosissime stelle, nel secondo un uomo in piedi in città che con un braccio sorregge il cielo. Se penso alla volta celeste e alle stelle luminose vedo il guazzo per la scenografia del Flauto magico mozartiano di Karl Friedrich Schinkel. L’Apparizione della Regina della notte in piedi su una falce di luna come adagiata su un vortice nuvoloso che porta con sé gli ultimi bagliori del tramonto sullo sfondo di un cielo blu brillante esaltato da curvilinee traiettorie stellate, dà ogni volta la sensazione di perdersi in un fondale magico senza fine che potremmo sentire come un’estensione cosmica di noi stessi. Non è la stessa romantica atmosfera dei quadri di Kiefer che sono piuttosto cupi. In Stelle cadenti l’uomo a torso nudo che osserva il cielo notturno è steso su un terreno rinsecchito. Non c’è uno slancio verso l’alto piuttosto quella miriade di puntini bianchi su sfondo nero sembrano spingere verso il basso, sembrano opprimere l’uomo e la sua terra inospitale.
Affascinato da questo quadro e dalla sua potenza espressiva Mantellini con grande rammarico sospira «Quel cielo, quella volta al contempo opprimente e meravigliosa, è oggi un oggetto morto: l’ultimo e il più importante dei nostri oggetti morti». Non voglio crederci, non voglio credere che abbiamo disimparato anche questo, a girare il naso all’insù per seguire la corsa di una nuvola o capire da dove cade la pioggia. Non voglio credere che l’uomo di Kiefer sia l’uomo di un tempo che non esiste più. Usciamo di casa, andiamo per le strade e ammiriamo il cielo. Insegniamo alle nuove generazioni che ci sono cose come la contemplazione della volta celeste, che la tecnologia non potrà mai superare. Emozioni, nel bene e nel male, che un telefonino non ci potrà mai dare. Se, come ci esorta a fare Proust, non riusciamo a conservare un lembo di cielo sopra le nostre vite, allora non solo il cielo è un oggetto morto ma noi siamo uomini a metà.