Il carisma di Erdogan regge, per ora

/ 20.06.2022
di Aldo Cazzullo

Sono stato dieci giorni in Turchia, un Paese da cui mancavo da prima della pandemia. Con i turchi noi europei siamo severi. «Mamma li turchi» era un grido di allarme, la «turca» il bagno più scomodo. Si bestemmia e si fuma «come turchi», si fanno «cose turche»… Siamo seri, però. La Turchia è un Paese dalla grande storia e dal grande avvenire. Atatürk, Mustafa Kemal, il «padre dei turchi», l’ha trasformata da impero a nazione. L’ha salvata dalle mire delle potenze vincitrici della prima guerra mondiale e dai greci. Soprattutto l’ha avvicinata all’Occidente, abbandonando i caratteri arabi per quelli latini e fondando uno Stato laico. La Turchia è un ponte naturale. A est c’è la Persia, a ovest l’Europa. Oggi sulle sponde a nord del Mar Nero ci sono i russi e la guerra in Ucraina, sulle frontiere a sud c’è la guerra civile siriana e la pressione dei profughi. È inevitabile che i turchi tendano ad essere nazionalisti.

Purtroppo il presidente Recep Tayyip Erdogan ha minato la laicizzazione dello Stato. Comunque tra Istanbul e Smirne ho visto per le strade, nei bazar, nelle botteghe, decine di ritratti di Atatürk e uno solo di Erdogan: è il modo di protestare delle metropoli. Ma il partito islamico è ancora forte nell’Anatolia interna. Anche molti oppositori di Erdogan, però, ne approvano la politica di neutralità tra ucraini e russi, che consente al Paese di muoversi in sicurezza e di giocare un ruolo di mediazione. Anche se l’accordo sul trasporto del grano non è arrivato e appare lontano quello sul cessate il fuoco. La Turchia è più che mai un Paese centrale nel grande gioco della geopolitica. Il futuro della nazione turca si giocherà alle prossime elezioni del giugno 2023, dove l’uomo da battere sarà ancora lui. Quando Erdogan entrò nella sala dove lo attendevano i giornalisti occidentali, il 4 novembre 2002, il giorno dopo la sua prima vittoria elettorale, l’impressione fu grande. Aveva il carisma di chi era stato in galera per le proprie idee. Non era ancora nulla, la condanna gli imponeva l’interdizione dai pubblici uffici; sarebbe diventato primo ministro solo 4 mesi dopo, ma i suoi uomini lo guardavano già con venerazione.

Quando un suo antesignano, il leader islamico Necmettin Erbakan, aveva vinto le elezioni nel 1995 ed era andato al governo, tentò di ingraziarsi i generali ostili invitandoli a un ricevimento. Al momento del brindisi offrì acqua e spremute di frutta. I militari si guardarono negli occhi. Poi uno di loro disse: «Per me un raki», il liquore di anice. «Per me vino bianco». «Per me un cognac». Erbakan allora capì. Si dibatté per qualche mese, ostaggio dei generali che lo costringevano a continui gesti di sottomissione, tipo salire a piedi sotto il sole di mezzogiorno al mausoleo di Atatürk. Finché un golpe bianco non lo destituì. Erdogan aveva una tempra diversa. Licenziato da funzionario del Comune di Istanbul per aver rifiutato di tagliarsi i baffi, vi era rientrato 14 anni dopo da sindaco. Destituito per una poesia non apprezzata dall’esercito – «le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette, i fedeli i nostri soldati» – imprigionato, condannato, liberato, eletto. La nostra prima domanda era scontata: che farà l’esercito con un governo islamico? «L’esercito è la pupilla dei nostri occhi», sorrise Erdogan. E l’Europa? «La mia prima visita sarà ad Atene: i greci ora sono nostri amici. Vogliamo entrare in Europa, ma senza sacrificare il nostro orgoglio». Cambierà la Costituzione? «La Turchia resterà una Repubblica democratica, secolare e sociale».

Non è andata così. Il palazzo in stile neo-ottomano da 1200 stanze e 70 ascensori. La guerra alla minoranza curda. Una nuova Costituzione presidenzialista ritagliata sulla propria persona. Eppure, man mano che si allontanava dall’Occidente e rivolgeva il proprio sguardo all’Asia centrale e al Medio Oriente, Erdogan continuava a vincere le elezioni, grazie al sostegno dei religiosi e dei contadini dell’Anatolia. E poi la dura repressione dei dimostranti del parco Gegzi. Il sostegno all’Isis. Le schermaglie e la pace con Putin. Il rapporto ambiguo con un’Europa pronta a servirsi della Turchia, secondo esercito della Nato e gigantesco campo profughi. E poi la notte degli imbrogli, il colpo di Stato del luglio 2016, l’appello lanciato attraverso i social la pantomima, il golpe usato per un contro-golpe per mettere fuori gioco l’opposizione. Va detto però che all’appello di Erdogan il suo popolo rispose. Il carisma non l’ha abbandonato. Almeno per ora.