Il cappone onorario

/ 09.01.2017
di Bruno Gambarotta

Come è andato questo Natale? Mi domandano gli amici che, conoscendo la mia passione per la tavola imbandita, sottintendono «dal punto di vista gastronomico»? La risposta è «come tutti gli altri anni»: il Natale in Piemonte è la festa del Piacere Differito. Se durante l’anno ci arriva in dono qualche leccornia, un barattolo di funghi sott’olio, di confettura di fichi e noci, di piccoli peperoni rotondi con l’acciuga e il cappero, la reazione in famiglia è sempre la stessa: «sarebbe un peccato aprirlo adesso, teniamolo per Natale». Con due possibili conseguenze: o l’eccesso di offerta spegnerà il nostro piacere o dovremo assistere impotenti allo spettacolo di un commensale che inforna uno dopo l’altro funghi interi come se inghiottisse patate.

Confesso che talvolta, per non aspettare il Natale, correggo di nascosto la data di scadenza sui barattoli, dando un preavviso di sole 24 ore. Nelle nostre famiglie la data di scadenza è un dogma inderogabile, una bomba a orologeria. Così facendo, metto in cattiva luce il donatore. Mia moglie: «Begli amici che hai! Potevano fare a meno di regalarti un cibo che sta per scadere. Bei cafoni». Pazienza. Intinta nel senso di colpa la prelibatezza è ancora più gustosa. Le leccornie sono gradite anche se piovono il giorno di Natale, portate in dono dagli invitati a pranzo. Accompagnate però dalla tetragona vocazione pedagogica dei piemontesi, per cui la consegna del dono procede parallela alle istruzioni per l’uso: «ti ho portato dalla Lapponia questa mostarda, per apprezzarla al meglio devi usarla solo per accompagnare lo stufato di alce, mi raccomando, guai a sprecarla su un volgare bollito di manzo». No! Se mi gira la tua mostarda la spalmo a colazione sulle fette biscottate e la immergo nel caffè latte!

In Piemonte il Natale a tavola è anche rispetto per i piatti tradizionali, primo fra tutti il cappone. Da cucinare sia arrosto che bollito, usando il brodo, dopo averlo sgrassato sia per fare la gelatina che per la minestra con la pasta reale. Citiamo da una storia dell’alimentazione in Piemonte: «da tempo immemorabile, pare addirittura da origini precristiane, il cappone costituisce il piatto principale del Pranzo di Natale e di tutte quelle feste propiziatorie che prima si tenevano nel solstizio d’inverno». L’impresa di procurarsi un cappone è diventata col tempo sempre più ardua. Bisogna prenotarlo per tempo, mesi prima, come se fosse una poltrona in platea al festival di Salisburgo.

Per approfondire l’argomento abbiamo incontrato il presidente dell’Associazione Capponi d’Italia, il commendatore Alceste Farinelli. L’abbiamo sorpreso mentre dirigeva una prova del coro di voci bianche, pochi giorni prima del Natale. L’impegno dei coristi era venato da una certa mestizia per la consapevolezza che ben pochi di quei cantori avrebbero visto l’alba di Santo Stefano. Siamo rimasti incantati dalla loro bravura. Per la verità, fra un cappone che canta e un cappone in gelatina noi propendiamo per quest’ultimo, ma evitiamo per delicatezza di farlo sapere al presidente.

Terminato il concerto, senza inutili preamboli, siamo entrati subito in argomento: «Davvero il classico dei nostri menù natalizi è a rischio di estinzione?». «È stato ed è ancora sempre un evento possibile», ci ha risposto con la sua voce angelica il presidente. «Per crederlo possibile è sufficiente riflettere sul fatto che la nostra religione ci vieta di riprodurci. Tranne rarissimi casi, caro lei, capponi non si nasce, si diventa». «Possiamo parlare perciò di una vocazione al capponaggio?» «Bé, non parlerei di una vera e propria vocazione, quanto di una predisposizione, di caratteri tali da attirare l’attenzione, e le forbici, della massaia. Da sempre il cappone ha popolato le aie del nostro Piemonte, libero di circolare ma affidato all’occhio vigile delle donne della famiglia». «Perché c’è bisogno dell’occhio vigile? C’è forse il rischio che qualcuno torni alle abitudini di prima delle forbici?». «No», è stata la risposta. «Noi siamo destinati all’ingrasso e la massaia vigila che il cibo destinato a noi, che siamo per definizione pacifici e tranquilli, non ci venga sottratto da quelle brutte gallinacce sozze che si contendono i favori del gallo». «Scusi, presidente, ma lei, osservando un gallo in azione non ha provato un po’ di nostalgia per una sorte diversa?» «Vuole scherzare? Li ha mai visti i galli? Arruffati, tesi come corde di violino, sempre in azione, sempre lì a fare gli stantuffi, sotto stress per il timore di perdere colpi e finire in padella. Capirei ancora se potessero scegliere, questa sì quella no, invece devono coprirle tutte, basta che facciano coccodè». «Avete avvertito qualche cambiamento dopo che è stato lanciato l’allarme sul rischio della vostra estinzione?». «Sì, certamente, ci sentiamo osservati con sguardi diversi, più consapevoli delle nostre qualità. Non c’è fiera di paese che non ci veda presenti in prima fila, lodati e apprezzati oltre ogni immaginazione. Sono molte le località che si contendono il privilegio e l’onore di potersi chiamare “città del Cappone”. Non vediamo l’ora che la disputa sia risolta, perché a quel punto potremo istituire due prestigiosi riconoscimenti, “Il Cappone dell’anno” e “Il Cappone Onorario”. Lei non immagina quanto è lunga la lista dei candidati».