Se non mi trovassi in Sicilia, non scriverei questo articolo. Ma mi trovo in Sicilia e mi capita tra le mani una «Guida ai sapori e ai piaceri della regione» (4–), pubblicato dalla Repubblica, e già il sottotitolo mi mette in allarme: «Le eccellenze». Nutro un grande sospetto per le cosiddette «eccellenze». Non mi piacciono. Con le eccellenze ci si riempie la bocca, ci si salva la faccia: quel che conta non sono le eccellenze ma la qualità media. Le eccellenze scolastiche di solito coprono le magagne dell’insegnamento, dei programmi, delle strutture; e così quelle universitarie, quelle gastronomiche, quelle sanitarie, eccetera.
La «Guida» segnala ristoranti, dimore di charme, botteghe del gusto, piatti della memoria, ricette del mare… Vado a cercare due o tre ristoranti e trattorie che conosco dalle parti di Siracusa e non li trovo. Non solo per spirito campanilistico, vado a cercare, nell’indice tematico, se in quasi seicento pagine è citata la mandorla di Avola, detta «pizzuta», da cui derivano i dolci migliori che io abbia mai provato, e non la trovo.
Ritorno deluso a sfogliare il volume dall’inizio e inciampo in un’intervista di Francesco De Filippo a (ovviamente) Andrea Camilleri. Quasi tutte cose già sentite, ma sarebbe irrilevante se non fosse presentata come un «contributo letterario di altissimo livello». Forse perché si arrischia nell’apprezzabile tentativo (2) di imitare – nelle risposte probabilmente ricostruite dall’intervistatore – la scrittura del Camilleri montalbanese. Per esempio, chissà perché non dice «quindi» ma «quinni», con pseudo-fonetica sicula applicata a una congiunzione che mai e poi mai verrebbe usata da un dialettofono. Idem l’improbabile «faccenna» per «faccenda»… che suona ridicolo a chi pratichi anche solo superficialmente il dialetto siciliano. È una coloritura qua e là: come il «chiù» alternato al «più». Un «arrinesci» al posto di «riesci», tanto per gradire. Quel saporino passepartout, come mettere una presa di origano su ogni pietanza, salata o dolce che sia, indiscriminatamente. Poi però ci sono tutti i congiuntivi al posto giusto… mai sentiti sulla bocca di un parlante in dialetto. Si sa che il camillerese non è il siciliano, ma una lingua inventata: però richiederebbe almeno quel poco di coerenza che nell’intervista della «Guida» manca del tutto fino a sembrare una involontaria parodia. Il mio paese diventa ogni tanto «il mio paisi» e «così» diventa ogni tanto «accussì». Si prende il camillerese e lo si fa diventare assurdo al quadrato mettendolo artificialmente in bocca al suo titolare probabilmente ignaro del risultato.
La tesi di Camilleri è che c’è un invisibile cordone ombelicale che tiene legati sempre e comunque i siciliani alla loro terra: anche quando abitano in luoghi lontanissimi (quante volte abbiamo sentito dire che ci sarebbero i «siciliani di scoglio», che si muovono sempre nei dintorni, e quelli «di mare aperto», che vanno via). Racconta, Camilleri, del suo rapporto con una città poco frequentata dalla letteratura, Enna, dove ha abitato per tre anni dopo la guerra. Enna si trova a 800 metri di altezza e all’epoca non conosceva il riscaldamento: c’era un «friddu terribile» (dire «freddo terribile» sarebbe stato meno letterario?), un paesaggio splendido e una biblioteca comunale meravigliosa dove il «diretturi» talvolta si levava la giacca sventolandola per alimentare il fuoco delle stufe a legna. In quella biblioteca il giovane Camilleri poteva stare al calduccio e aveva a disposizione fondi librari prestigiosi con importanti riviste del Novecento, compresa «l’Acerba»: clamoroso equivoco dell’intervistatore, poiché in realtà la famosa rivista di Soffici e Papini cui Camilleri allude è «Lacerba» (senza l’apostrofo). Insomma, un mezzo disastro che una redazione anche minimale avrebbe potuto per lo meno limitare.
Da straordinario fenomeno di letteratura popolare, Camilleri diventa, sfruttato malamente, una macchietta di se stesso, che risponde con inesistenti «sissi» e «nonsi» al posto di sì e no. E «insemmula» rende un pessimo servizio alla sua terra, che definisce «il mio sangue, mio patre, mia matre, i miei avi, la mia cultura, la mia aria». Il risultato è un artificio di pessimo gusto, dove la sicilianità linguistica diventa colore da negozio turistico come uno scacciapensieri («’a marranzana» di mafiusu), un pupo e una coppola. Un bravo scritturi comu Camilleri avissi dirittu assiri arrispettatu, ma accussì s’arrovina e s’arriddiculizza. A Sarausa e dintorni c’è un caudu terribbule in queste simane, ma a leggere certe interviste ti cala un friddu, un friddu che manco a Enna ndo ’nvernu…