Una luce speciale color miele di castagno, nata dall’incontro tra il legno di quercia dell’abbondante boiserie e gli abat-jour appesi, predispone l’animo al mondo. Tre signore di una certa età, a un orario madrileno, nella sala vasta come quella di una sala da ballo, pranzano sole senza solitudine. «Esseri soli ma con la gente» è forse questa, in breve, l’alchimia del café Romand (497 m) a Losanna, espressa, in un mini documentario andato in onda decenni fa, da Christiane Péclat. Storica patronne, dal 1972 al 2011, di questo posto fondato da suo papà, Louis Péclat (1907-1998), il ventidue ottobre del 1951. In origine una specie di tempio del vino bianco regionale – captato ai tempi in modo innovativo direttamente dai tini nelle cantine del sottosuolo, grazie al montavino Aspir, tutto argentato, brevetto della ditta Panizza di Ginevra – è un incrocio tra il bistrot vodese di campagna e la brasserie cittadina.
Il punto focale per i fedeli è il grande quadro in fondo che raffigura un viticoltore di spalle, il piede sinistro sul muretto, ammirare fiero i vigneti del Lavaux. Il Lemano, con le montagne mezzo innevate di fronte, non riesce a distogliere il suo sguardo dai vigneti di Epesses. «Hodleriano» mi disse una sera tardi un habitué e dipinto da un tale Henri-Vincent Gillard (1902-1980) che veniva qui tutti i giorni a bere il bianco di quei vigneti ritratti, contribuisce di certo allo spirito contemplativo dei clienti del Romand. Aspettando la fondue, accarezzo, con i polpastrelli, i tre elementi della vite cesellata sui lambris di quercia sopra lo schienale della panca. Grappoli, foglie, viticci elicoidali, riconfortano per la loro semplicità dovuta a un ebanista di nome Ledermann, come trovo scritto in un luminoso articoletto-ritratto initimista uscito un novembre del 1987 sul «24 heures» a firma di Gilbert Salem. Dove si scopre anche, proprio per via del décor in quercia: «i clienti del Romand hanno un po’ l’impressione di vivere un’esistenza da uccellino». Colpo di scena: nella panca simmetrica alla mia, verso le finestre, riconosco lo sguardo chiaro di Christiane Péclat. Ai tempi d’oro fumatrice di marylong extra, l’ex patronne dagli occhi azzurro nontiscordardimé, pullover blu marino, sciarpa tartan celeste, la treccia nei capelli grigi, chiacchiera a fine pranzo con una sua amica.
Il brouhaha iniziale appena entrato, sta scemando, tanti tavoli vengono sparecchiati dalle classiche tovaglie a quadri: unico cambiamento della nuova gestione, il verde al posto del blu bordato da un filo d’oro. Affondo i primi pezzi di pane nella mia prima fondue dell’anno che combacia con l’apparire dei prati brinati. Lo sguardo del genere myosotis dell’ex patronne, una volta, in mezzo al mare di tavolini, colse «i più begli occhi del cinema francese»: Michèle Morgan. Di passaggio. Frequentatore abituale invece, spesso allo Stammtisch, in Romandia chiamato anche table des menteurs, Armand Abplanalp. Attore di teatro, grande bevitore, noto forse ai cinefili per un piccolo ruolo in Ultimo tango a Parigi (1972). Altro bevitore di rilievo che entrava in scena ogni giorno, nel locale affollato da avvocati, operai, pensionati, studenti, era Jacques Chessex. L’autore noto per L’Ogre (1973), tracannava ettolitri di dézaley, oltre a rimpinzarsi di pieds de porc e concludere con giri di «kirsch-maison da stendere un ussaro». Come si può leggere in Carabas (1971) dove il café Romand spunta più volte e rivela i tratti maternali di Madame Betty. Una delle memorabili cameriere di questo locale ritmato da tre enormi pilastri che donano, allo spazio, un effetto navata.
Bluette, Hortensia, Tina, Sabine, Evelyne, Génia, Gisèle, Jasna, Helga, Marilou, alcune delle altre cameriere di carattere che hanno marcato le memorie. Indimenticabile però, pare sia stata Baba: una martinichese che si muoveva imperiale nella sala con al collo un ciondolo che attirava tutti gli sguardi: un fallo dorato creato da Bucherer. Non passava inosservato neanche Virgile, un habitué fulminato che come copricapo si metteva un’insalata capovolta. Il sorriso di uno dei due amici ritrovati per il rito di tre decilitri di chasselas, un primo pomeriggio a metà dicembre, dice tutto. Niente di tutto questo, notai, immalinconito qui una sera oscura di secoli fa. Ricordavo solo il suo nome, sopra l’entrata, in neon azzurro lucente.