Ai primi freddi, il richiamo della fondue, da qualche parte in Svizzera romanda, quest’anno è da seguire. Non sono un fan, ma una volta ogni due tre anni circa, devo andare di corsa in certi posti conosciuti per la fondue. Come il Café du Gothard (607 m) a Friburgo dove mi sto dirigendo adesso a piedi appena sceso dal treno. Oltre la fondue, questo locale – battezzato così alla sua apertura nel 1880 in omaggio al tunnel ferroviario del Gottardo inaugurato due anni dopo e dove sono passato stamattina verso le otto e mezzo – un tempo era famoso anche per la sua irripetibile atmosfera. Opera di Marie-Rose Holenstein (1944-2012): anima per trentadue anni del Gothard assieme al suo inseparabile bulldog inglese Albert. Ex tata dei Kennedy in America, ha ospitato a casa sua Jacques Fasel, bandito vecchio stile sbarcato una domenica pomeriggio nel suo bistrò dove fluttuavano due gigantesche sculture gioiose di Niki de Saint Phalle. Acquarelli di Tinguely alle pareti, foto di toreador, coniglietti rosa in peluche, rami con uova pasquali, caratteri cirillici di un enorme manifesto del concerto di un coro locale a Mosca, ricordo anche una volpe impagliata con in bocca una collana di perle. Ballerine con fiocchetto a pois ai piedi, Marie-Rose trattava con la stessa umanità uno spazzino o un consigliere federale. Non per niente, in occasione della mostra Au café, soif de societé al Musée d’art et d’histoire, a trecento metri neanche dal Gothard, dall’autunno dell’anno scorso alla primavera di quest’anno, era esposto un bel ritratto fotografico in biancoenero della «patronne légendaire» con il suo cane accanto, immortalata mentre ride con gli occhi.
È sempre lì, all’ombra della cattedrale gotica di molassa: discreto, l’insegna in oro su sfondo nero come le due colonne all’entrata al sedici di rue du Pont-Muré. Mantenuta, meno male, la classica tenda spessa da bistrò color vinaccia che permette – oltre a tenere al caldo la clientela senza correnti improvvise d’aria fredda – a chiunque, un’entrata in scena teatrale. Mi siedo su una delle vecchie panche tutte intorno alla prima sala e la vista di un caquelon color ciliegia, sopra un réchaud in rame, mi mette subito di buon umore. Senza guardare la carta, ordino una fondue al vacherin. Non l’ho mai provata, l’ultima che ho preso, al Café de l’Evêché a Losanna qualche anno fa, era una moité-moité: metà gruyère, metà vacherin. Del resto al Café Bon Vin di Ginevra mai preso altro che moité-moité, eppure la vera fondue vodese, mi ha detto una volta Annie, la patronne scomparsa dell’Ambiance, bistrò mitico ormai estinto come molti altri di quel genere popolare autentico, è solo gruyère. Curioso, però, come entrambi i formaggi per la moité-moité siano friburghesi, perciò ho sempre considerato Friburgo un po’ come la capitale della fondue. E una fondue memorabile spunta come finale di un reportage su Friburgo, apparso sul «Corriere della Sera» del venti aprile 1947 firmato Eugenio Montale. Inviato speciale in pantofole il cui informatore sul campo era Gianfranco Contini, titolare qui della cattedra di filologia romanza. Intitolato Due preti negri seduti al caffè e ripubblicato postumo a cura di Fabio Soldini in Ventidue prose elvetiche (1994), il ritratto colto e ironico di Friburgo finiva così: «Uno scrittore francese, mezzo surrealista, l’adora dal giorno in cui poté vedervi, seduti a un tavolo di caffè, due ecclesiastici negri, due autentici africani, divorarsi tranquillamente una bianchissima fonduta di gruyère…».
Menzionata per la prima volta nel 1699 in un manoscritto zurighese di ricette, portata a New York nel 1940 per l’esposizione universale, di moda negli anni settanta forse sull’onda dello sci epidemico, propinata spesso come simbolo di convivialità e coesione nazionale eccetera, ecco che arriva la mia fondue delicatamente pallida. Il caquelon è rosso vulcanico. Oltre al pane, per la vacherin servono delle piccole patate al vapore con la buccia. Buonissima, e poi è anche un’attività ludica infilzare, gironzolare con il forchettone pattinando nella fondue. Certo, il décor funky-kitsch di prima è un po’ ricreato ma risulta artefatto. Troppo ordine nelle foto incorniciate e la scultura cinetica è di un emulo posso di Tinguely.
A ogni buon conto c’è stato un certo rispetto, durante il restauro nell’autunno 2004 e la ristorazione è seria. Il legno chiaro risalta, le sedie thonet d’epoca s’intonano sempre con tutto, girano invitanti frites dorate, avvisto un articolo incorniciato con una foto di Marie-Rose e Albert. Accanto, un altro ritaglio di giornale parla della sua fedele spalla, Gaby Nasel detta Gabichon, cameriera emblematica che quando l’habitué dal pensiero criptico-carpiato ordinava un «Paris-Dakar» gli serviva sapiente il rosé d’Anjou. Inoltre, va detto, l’orario da bistrò vero è conservato: dalle nove di mattina alle undici e mezza. I giornali sono al loro posto, nel portagiornali a fianco dell’entrata. Noto «La Liberté», quotidiano locale fondato nel 1871 e letto qui al Gothard, in compagnia di una «bière-cognac», dal protagonista alla deriva di Jonas (1987). Romanzo di Jacques Chessex dove questo locale, verso fine novembre, entra in scena otto volte in una settimana.
«Sentirsi bene al Gothard per noi è come sentirsi meglio che a casa, meno soli a volte, o più liberi» mi confessò una sera uno che potrei definire, senza ombra di dubbio, bistrologo emerito di Friburgo.