Il café-bar Odéon a Biel o Bienne

/ 07.12.2020
di Oliver Scharpf

Aria di neve, odore di caldarroste, cielo lattiginoso. La giornata ideale per rifugiarsi all’Odéon. Due volte in un decennio ci sono stato, eppure ho ancora negli occhi, vivida, quest’oasi anni trenta di velluto rosso. Cinque minuti neanche, tutto dritto, lungo la Bahnhofstrasse o rue de la Gare. Il neon della scritta in corsivo, purtroppo, di primo pomeriggio, è ancora spento. Alla stessa maniera, sotto, sopra l’entrata, c’è scritto lo slogan: à l’Odéon tout est bon. Di sicuro, la terza volta, inebetito e indeciso sul tavolino a cui sedermi, il café-bar Odéon (433 m) a Biel o Bienne mi sembra ancora più bello. Considerato dall’Heimatschutz tra «i più bei caffè e tea room della Svizzera», ora, così su due piedi ai primi di dicembre, oserei quasi dire che per bellezza non teme rivali. Velluto rosso vermiglio, boiserie, tavolini in marmo nero venati di bianco, specchi, separé, lampade in ottone, e una carta da parati floreale sensazionale.

Trovato il mio posto da dove posso lanciare uno sguardo d’insieme, questi ingredienti sono abbastanza imbattibili. Ordino un caffè tazza grande stile detective Cooper di Twin Peaks. I cuscini di velluto rosso vermiglio noto anche come cinabro, sono agganciati, attraverso un cordoncino intrecciato in tinta che sbuca da un anello d’ottone, a un pomello delle poltroncine in legno. O delle panche, come questa dove siedo che arriva fino alle vetrate, sulla strada. Un bel legno bruno lucido, a tratti tipo radica. Si ritrova, oltre che nelle sedie, nel piede dei tavolini, nei separé, e nell’appendiabiti: capolavoro nascosto. Più chiaro, consunto dal tempo, appare il legno sui guizzanti posabraccio delle poltroncine. Come quello là, accanto al bancone di zinco, dove una signora legge un libro. Un signore, un tavolo più in là, beve un bianco. Nato nel 1930, il primo locale della Svizzera a essere iscritto nel registro di commercio come bar, omonimo del più famoso Odéon zurighese (1911), conta da sempre su una clientela fedele, abitudinaria fino all’ossessione. Fondato da José Monné, originario di Sant Andreu de la Barca, in Catalogna, il patron fino agli anni ottanta è il figlio, assieme alla moglie Carmen.

Sorseggio il caffè e osservo, senza tregua, in giro. Il posto scelto, centrale, fa angolo con il separé che delimita la parte più intima dell’Odéon biennese. Posso così tenere sotto mira tutta la prima parte, più luminosa, dove ci sono nove tavolini, sei dei quali occupati. Cinque grandi lampadari sferici – vetro opaco e ottone – appesi al soffitto, tre altre lampade sferiche che spiovono da archi in ottone cesellato a foglia, tre orchidee bianche. Al contempo, da qui, posso osservare, in parte, anche la zona più discreta che conta sette tavolini, di cui uno rotondo, qui a fianco, dove un papà tipo artista e la figlia con un pulloverone da rapper, bevono due coche. «Mi succede una volta all’anno» ha detto prima alla figlia, a proposito della cocacola. La carta da parati rapisce con tutti quei calici enormi di strani fiori sensuali stile foresta amazzonica e papaveri. Intonati ai cuscini, prolungano il rosso tutto intorno, ombreggiato a tratti, in tonalità più scarlatte che mi ricordano i melograni o il karkadé. Intramezzati, i ricami-fogliame di un verde pavone profondo su sfondo inchiostro, fanno risaltare il bel rosso cinabro prevalente. Riprodotta dalla stessa ditta di Vienna creatrice dell’originale, grazie al desiderio di Rolf Schädeli e Nathalie Jeanrenaud – che dieci anni fa hanno preso in mano l’Odéon dandogli nuovo lustro mantenendo la sua innata eleganza – gioca un ruolo fondamentale.

Kurt, coetaneo novantenne del locale che viene qui da una vita ogni giorno a bere il suo caffè e leggere i giornali, mi confessa perché ha incominciato a venirci: «la Carmen». Moglie «bella come un quadro» del patron spagnolo. Mi racconta poi di un cameriere speciale alto un metro e mezzo, sempre con il cravattino nero d’ordinanza, soprannominato Piccolo. È Alfredo Bertacchi, un ticinese emigrato nel 1948 che scrive poesie sui giocatori di morra. All’Odéon, tra l’altro, a quanto pare, si fermava spesso fino a non molto tempo fa, lo chauffeur di una Rolls-Royce che ordinava due bottiglie di champagne. Una per lui che si scolava seduto ai tavolini fuori, dove adesso ci sono un paio di fumatori e le coperte invernali, una per i tergicristalli. Noto sul dorso dello schienale di una poltroncina, di fronte al tavolino riservato ai giornali, un interludio di zinco sul quale sono incisi i nomi di quotidiani vari, alcuni estinti, come «La Suisse». Non voglio battere il record di permanenza qui – diciassette ore e trentasei minuti, un quartetto di amici – ma non ci sono importanti motivi per andarmene.

Ben frequentato anche di questi tempi, l’andirivieni è continuo ma vellutato. L’atmosfera si anima al crepuscolo quando appaiono coppiette con prosecchino, vecchietti con birrette. Una ricorrenza, qui, verso Natale, è la battaglia delle spagnolette. Ci si concentra per trovare, all’interno della spagnoletta, sulla faccia di una delle due metà, la testa microscopica di un Babbo Natale, San Giuseppe, o folletto. E al contempo, ci si lascia andare a lanciarsi addosso le spagnolette senza pietà. Una signora con un vestito a fiori, seduta in compagnia del suo kir, mi rivela che il suo barboncino soffre di disturbo affettivo stagionale. La cura, secondo lei, sono i canapé.