Alberto Giacometti (1901-1966) muore l’undici gennaio all’ospedale cantonale di Coira. Si gela, chissà nel suo atelier senza riscaldamento in rue Hippolyte-Maindron a Parigi: lì, avvolta da stracci bianchi come un sudario, c’è una figura in argilla che rischia di spaccarsi da un momento all’altro. Suo fratello Diego corre da Coira a Parigi con il primo treno notturno per salvare – come ha fatto con molte altre sculture che Alberto avrebbe continuato a ritoccare all’infinito fino magari a distruggere – quell’ultima scultura, forse la più straordinaria: è il busto di Eli Lotar III.
Eli Lotar (1905-1968) è un fotografo di talento caduto in rovina. Scalda l’atelier, disfa gli stracci, ne fa un calco in gesso e via alla fonderia di fiducia; la fonderie Susse fondata nel 1758. Estate 1969: il busto in bronzo di Eliazar Lotar Teodorescu viene posto accanto alla colomba fatta da Diego Giacometti (1902-1985), sulla tomba di Alberto Giacometti nel cimitero di Borgonovo, frazione dell’ex comune di Stampa, dove era nato. Per anni è rimasto lì, ma dopo che la colomba è stata rubata per la seconda volta, si è deciso di metterlo al riparo nel museo Ciäsa Granda di Stampa. Un esemplare si trova al museo di Coira, l’ottava e ultima fusione alla Beyeler di Basilea e mi ha fatto venire quasi, l’autunno scorso, la sindrome di Stendhal. La visita alla tomba di Giacometti, passando da queste parti, l’ho sempre rinviata, forse per la troppa venerazione adolescenziale e la paura di una tristezza dilagante. Ora però devo vedere d’urgenza l’Eli Lotar III che ha vegliato per decenni, giorno e notte, la tomba di Giacometti. Appena scendo dal palm express mi accoglie lo scrosciare della Maira. Un bel portone a tutto sesto in larice chiodato, con spranga e battente in ferro battuto, segna l’ingresso di questa grande casa cinquecentesca; quattro piani con finestre a imbuto e sgraffiti triangolari rossastri agli angoli. Ma la grande sorpresa è il pavimento dentro, da levare il fiato: tutto di ciottoli di fiume ritmati da listelle in beola e accarezzati ora dalla luce di fine di giugno. Vado dritto alla meta, concedendomi come unica distrazione il gatto-maggiordomo di Diego Giacometti. Qualche gradino in granito e poi a sinistra, eccolo lì il busto di Eli Lotar III a Stampa (994 m). Schiena dritta e sguardo accecante. Lo stesso che a ventiquattro anni, su invito di Georges Bataille, scatta delle formidabili foto del macello della Villette e come cineasta conosce un momentaneo successo a Cannes con il cortometraggio Aubervilliers (1946), per poi perdersi nei bar parigini.
Con i brividi lungo la schiena mi siedo su una delle due panchine in granito. È seduto ma sembra inginocchiato nella postura yogica Virasana: la posizione dell’eroe. Il cranio calvo accresce l’alone monacale buddista. Yves Bonnefoy, oltre a definire quest’ultima opera «forse la più bella, certo la più significante» nel suo librone Giacometti, biographie d’une œuvre (1991) descrive il Lotar III «come uno scriba egizio che leva gli occhi dal libro dei morti per tuffarli nell’ignoto». Del resto Beat Stutzer, nel suo saggio A proposito del busto-ritratto Eli Lotar III di Giacometti (2010) apparso sui «Quaderni grigionitaliani», trova una precisa corrispondenza nella posizione in preghiera della scultura egizia di Nakhthorheb conservata al Louvre. Questo Lotar III, rispetto agli altri sette, ha una marcia in più: nella zona tra l’avambraccio sinistro e il costato, sulla superficie increspata, si nota una meravigliosa patina color licheni. È il lascito delle intemperie a cui è stato esposto e gli conferisce una bellezza ulteriore. Sulle labbra si leggono dignità e disgusto. È il volto sofferto degli ultimi. Ma Giacometti, oltre ad aver aiutato in concreto Lotar che era diventato un mezzo barbone, gli ha restituito, a furia di modellarlo testardamente, un lampo di splendore. E Lotar si è concesso, con la forza di chi non ha più nulla da perdere e la fierezza dei perduti ma mai vinti, allo sguardo fraterno dell’ostinato Giacometti. «Eli Lotar doveva essere il modello ideale, perché Lotar era morto. Non respirava, non pensava, non abbandonava mai la concentrazione. Una sola elettricità, una identica complicità andava e veniva dall’uno all’altro» scrive Giorgio Soavi nel suo Alberto Giacometti, il sogno di una testa (2000). Entrambi, in rue Hippolyte-Maindron quarantasei, hanno dato l’anima. In realtà però le vite immortalate in questa strepitosa opera sono tre, intrecciata a loro c’è anche quella di Diego Giacometti.
Riguardo un’ultima volta l’intrepido sguardo sconfinato di Eli Lotar catturato per sempre e visibile qui alla Ciäsa Granda di Stampa da giugno al venti ottobre, il pomeriggio. E m’incammino verso il cimitero di San Giorgio, a un chilometro, abbracciando con gli occhi l’ormai amata Bregaglia: le vecchie case semplici, i boschi, le montagne aguzze con qualche traccia di neve. Non a mani vuote varcherò quel cancello, i prati sono pieni di fiori spontanei.