Il Buffet de la Gare a Céligny

/ 05.07.2021
di Oliver Scharpf

Liz Taylor, tre giorni dopo il funerale di Richard Burton (1925-1984) al quale non è potuta andare perché la famiglia e la quarta moglie non volevano un circo mediatico, cerca un momento di raccoglimento davanti alla tomba del grande amore della sua vita. Capelli mesciati, occhialoni da sole, orecchini d’oro, camicetta a righe e jeans chiari, il dodici agosto 1984 aspetta fuori dal vecchio cimitero di Céligny, sotto le fronde degli alberi che lasciano entrare appena un filo di sole. Una truppa di paparazzi è appostata dentro, tiene sotto mira la tomba del famoso attore gallese, una guardia del corpo tenta invano di trattare cinque minuti di pace per lei. Ci prova la sua segretaria ma i fotografi-avvoltoi non mollano la preda e così, scuotendo più volte la testa, Liz Taylor se ne va. Sbarcato per caso a Céligny nel 1957, l’attore nato a Pontrhydyfen, villaggio di minatori e appasionati di rugby non lontano da Swansea, compra una casa in questa enclave ginevrina nel distretto vodese di Nyon.

Settecentonovantanove anime, lievemente in collina quel tanto che basta per vedere un pezzettino di Lemano con una certa prospettiva distensiva come adesso, all’ora di pranzo di una bella giornata mutevole di luglio. Forte bevitore, l’attore shakespeariano dalla straordinaria voce baritonale definita da un critico teatrale «di velluto nero» e da lui stesso precisata meglio come «cosparsa di polvere di carbone e pioggia» tipica degli abitanti di quella zona del Galles, lo si vedeva spesso al Buffet de la Gare (391 m). Il ritrovo, color rosa oleandro, reputato per i filets de perche a partire dagli anni cinquanta, epoca in cui è nata la ricetta dei signori Fillistorf poi imitata in tutta la regione lemanica fino a diventarne il piatto simbolo, è situato proprio in faccia alla gare. La stazione di Céligny dove da anni non si ferma più nessun treno. Non ho riservato e per fortuna, sulla terrazza ombreggiata dagli ippocastani, c’è ancora un ultimo tavolo. Uno dei tre sotto una pergola in legno a losanghe color ostrica con edera, a ridosso del ruscello. Il Brassus, una presenza benvenuta, tonica, amichevole. I filets de perche, serviti con le frites allumettes, è un piatto di quelli che scatena molti ricordi, tutti legati all’estate e tanti risalenti a una mia ex che mi ha iniziato a questo rito sulle terrazze ombreggiate più o meno lacustri. Butto un occhio dentro, dove l’ambiente retrò invita a venirci non solo in estate, in cerca del tavolo di Burton.

Trovato subito grazie a una foto – incorniciata in oro, sullo sfondo la carta da parati floreale – appesa lì sopra. Richard Burton, la faccia provata da notti insonni, dolcevita nero e giacca di velluto chiara, sta entrando qui con a fianco l’ultima vera diva di Hollywood vestita come una zingara. Bandana batik in testa, collanone indiano al collo, soliti occhialoni a nascondere i suoi incredibili occhi viola per i quali è forse celebre, la maglietta israeliana della Coca-Cola. Immortalati con estrema naturalezza, tra gli stessi ippocastani che impreziosiscono ora come allora il luogo, non riesco a staccare gli occhi da questo scatto che cattura tutta la turbolentissima storia d’amore sbocciata a Roma sul set di Cleopatra (1963), intralciando il viavai delle cameriere. Dorati nel burro come Dio comanda, arrivano i filetti di pesce persico posti a corona intorno a una collina di frites esili grossomodo come fiammiferi.

Pescati da Jean-Charles Bensadoun di Founex, si sciolgono in bocca; però anche l’argenteria di un tempo, la tovaglia bianca seria, il Brassus che scorre gioviale per via degli acquazzoni di questi giorni, lo spirito della star del villaggio che aleggia ancora, fanno la loro parte. Abitava a trecento metri di qui, in una villetta semplice che non dà nell’occhio. Nessun Oscar (nonostante sette nomination) e nessun taxi, dunque, dopo le bevute con Roger Fillistorf, patron dell’epoca assieme a sua moglie Mireille. Crème brûlée e via, vado a trovarlo al cimitero. Céligny ha pure la particolarità di avere due cimiteri. Il vecchio cimitero è indicato con un cartello, tra i prati e campi dove cammino con la testa tra le nuvole che oggi sono in stile fiammingo, cumulonembi del tipo van Ruisdael. Risalente al 1841, è nascosto nel bosco, a fianco del Brassus, ritrovato un poco più a monte, che si sente scorrere più in basso.

Spingo la pesante porta in ferro ed ecco un graziosissimo cimitero all’inglese, quasi shakespeariano. Ombra boschiva armoniosa, lapidi storte, cancelli arrugginiti, l’erba alta, il sopravvento – misurato come un sonetto – della natura sull’uomo. La tomba di Richard Burton è la seconda a sinistra: una pietra tombale come un dolmen. Nessun fiore a parte peonie appassite da settimane, solo qualche conchiglia raccolta dalla baia di Swansea. Sepolto con le poesie di Dylan Thomas (uno dei miei poeti preferiti) sul petto, il posto libero accanto, si sa, sarebbe stato per Liz Taylor. A nove passi scopro che riposa Roger Fillistorf (1946-2003), l’amico oste del Buffet de la Gare. La tomba accanto è quella di Alistair MacLean (1922-1987), romanziere scozzese autore della sceneggiatura di Dove osano le aquile (1968) interpretato tra l’altro da Richard Burton. Problemi di alcool anche lui, nessun nesso con Céligny se non l’aver visitato Richard Burton qui al cimitero. Luogo segreto che rapirebbe anche un marziano, il cui legame con il Buffet de la Gare è sancito dal ruscellare soave del Brassus.