Nel mare magnum delle informazioni sui vaccini e sui loro possibili effetti collaterali, sui test più o meno rapidi e affidabili, sulle ondate prossime venture della pandemia, informazioni spesso in palese conflitto tra di loro, siamo tutti costretti a navigare sempre più perplessi, e anche un po’ disorientati. In questo clima di polifonia mediatica assume allora grande rilevanza la necessità di punti di riferimento fondati. Abbiamo bisogno di verità. Nell’intrecciarsi di opinioni contrastanti, quanto più rischia di svanire sullo sfondo, tanto più la verità ci interpella con urgenza. Sentiamo il bisogno di un fondamento certo in cui riporre fiducia per poter dare un senso a ciò che sta accadendo e per operare con coscienza le nostre scelte quotidiane.
Ma che cosa significa «verità»? O per meglio dire, come si manifesta oggi il bisogno di verità?
Ovvio che nell’attuale contesto comunicativo questo bisogno riguarda innanzitutto la conoscenza: è il bisogno di affermazioni scientifiche fondate per comprendere la realtà e per prevederne gli sviluppi. La scienza moderna, come ben sappiamo, ha in un certo senso messo tra parentesi la verità, accogliendone la ricerca sottovoce, trattandola con cautela, come una bella e delicata idea-limite.
Come ci ha insegnato il filosofo Karl Popper, la scienza non dà certezze, anzi è un’impresa sempre aperta, il cui valore consiste proprio nel poter essere sempre falsificabile da altri saperi altrettanto fondati. Il che significa che dobbiamo stare attenti a non chiedere alla scienza certezze. Le certezze non appartengono alla scienza proprio perché sono affermazioni che non possono mai essere falsificate. Sono sempre vere. Sono dogmi. «Domani pioverà o non pioverà», ad esempio, non è un’affermazione scientifica perché, appunto, sarà sempre vera.
Le cosiddette fake news, falsificandosi a vicenda in un gioco comunicativo inquietante e un po’ perverso, scavalcano allegramente il rigore metodologico e se ne fanno un baffo del significato scientifico della falsificazione. Si dice tutto e il contrario di tutto, poi ognuno ne faccia l’uso che crede.
Affidarsi a verità scientifiche, per loro natura sempre provvisorie, senza pretendere che ci diano certezze, è un compito della ragione di certo non facile. È una bussola oggi più che mai necessaria, un impegno che ci interpella tutti in prima persona, soprattutto in un contesto così volatile, che alcuni hanno definito l’epoca della post-verità: un’epoca in cui a ognuno è dato di scegliersi le certezze che meglio gli aggradano, spesso quelle che lo tranquillizzano.
In coloro che non abboccano alla chiacchiera amorfa oggi dilagante può rimanere invece un certo malessere legato proprio all’incertezza costitutiva di ogni verità. Ma questa incertezza può rivelarsi una buona occasione per riflettere in modo più ampio sul significato esistenziale, sull’esperienza intima e personale della verità. Qui il rapporto tra verità e il bisogno di certezze si fa molto più delicato. La certezza può infatti diventare un valore esistenziale quando, appunto, la verità riguarda il nostro essere veri: l’essere vera, innanzitutto, della parola che pronuncio.
Ce lo ricorda l’esperienza socratica del dialogo, in cui la parola non è solo un mezzo per dire la verità ma il luogo stesso in cui si costituisce verità. Implicito nell’idea di dialogo sta il valore etico di parole scambiate come un dono. Davanti ai giudici Socrate si difende proprio richiamando quel valore di verità della parola con cui indagava l’animo dei suoi discepoli. Un’esperienza in cui il dialogo è incontro vero di anime.
Vale la pena di ricordarlo: la parola è la casa in cui abitiamo. Da sempre pronunciare parole vere è un valore, una scelta etica. Questa verità nasce nel nostro mondo interiore, abita il nostro sentimento di interiorità. Come ebbe a dire sant’Agostino: in interiore homine habitat veritas.
Verità è esperienza originaria di sé, e insieme apertura alla relazione con gli altri. Fin da quell’essere vero di un bambino rimproverato ingiustamente per aver «rubato» i biscotti. «Ma non sono stato io! È vero!». Come dire: «sono vero». Questa sincerità sembra poter accogliere in qualche modo anche il bisogno di certezza: la certezza di essere persone autentiche. Qui non si rischiano pericolosi dogmi ma, al contrario, si accoglie il coraggio di essere una persona vera.
Lo spirito moderno ci ha allontanato da una parola divenuta non a caso un po’ sospetta, ma questa parola continua ad offrirci un altro racconto di sé. Il racconto di ogni vita che, nel contatto con sé stessa, ritrova il suo più autentico valore.