Ci sono stato solo una sera, diversi anni fa, ma ho ancora negli occhi le due lampade in bronzo di Diego Giacometti (1902-1985) sul bancone di mogano lucido. Ricordo anche un nonsoché di ovattato come quando scende la neve o sei su una nave da crociera. Né ho scordato il nome del più famoso cocktail inventato lì: Ladykiller. L’orario ideale è «al pomeriggio, quando il bar è mezzo vuoto» rivela il suo stesso creatore, Robert Haussmann, architetto d’interni e designer zurighese classe 1931.
E così a Zurigo, verso l’ora del tè, spingo la pesante porta in legno del bar della Kronenhalle (410 m). Già la maniglia in bronzo con su una corona sghemba la dice lunga: è la prima impronta di Diego Giacometti. Una bussola d’ingresso introduce poi intelligentemente nel locale tutto rivestito di mogano. I listelli gli conferiscono qualcosa di navale. Mi siedo su un divanetto in pelle tipo chesterfield color verde biliardo. Il verde è prolungato con parecchio panno alle pareti dove sono appesi alcuni quadri. Alle mie spalle, nell’angolo destro all’entrata, una coppia di una certa età beve vino bianco sotto a un Picasso. Ordino un gin fizz. Un bel Rauschenberg verde e oro qui davanti, nell’angolo sinistro dell’ingresso, s’intona a meraviglia con questo luogo impareggiabile nato nel 1965.
Bar senza tempo dove anche il committente ha fatto la sua parte. È Gustav Zumsteg (1915-2005), figlio di Hulda Zumsteg, leggendaria patronne del mitico ristorante Kronenhalle (1924) qui accanto, dove ancora vigila ritratta da Varlin. Nonché collezionista d’arte e mercante di seta esclusiva; all’epoca era a capo della gloriosa Abraham dalla quale si rifornivano Cristobal Balenciaga, Givenchy, e Yves Saint Laurent. Del resto, al primo appuntamento per discutere un po’ il progetto del bar, Gustav Zumsteg porta lo stesso libro portato da Haussmann con un segnalibro alla stessa pagina: sulla foto c’è l’American bar (1908) di Loos a Vienna. La referenza, il bar dei bar, l’asticella è posta in alto. Sono stati all’altezza, anzi. Inoltre è Zumsteg, grazie alle amicizie del suo periodo parigino, il nesso tra Giacometti e questo posto che prima era un salon-coiffeur.
Sopra le spalle del barman lo shaker d’argento riluccica e risuona nitido. Il mormorio dei cubetti di ghiaccio s’interseca al rumore filtrato e attutito del traffico sulla Rämistrasse. L’acustica qui è nevosa, soprattutto per via della combinazione tra il manto in mogano e i panni soffici verde gioco. C’è poi un’altra nevosità, visiva. La luce delle cinque meno un quarto dopo la metà di febbraio, entra docile e lenitiva, attraverso i drappeggi a nuvola. Davanti ai quali, scende una lunghissima catena in bronzo che regge una sfera di luce dentro una specie di nido tormentato. O una Corona di spine come ha intitolato Giacometti questo paio di luci bislacche. Dieci altre sfere si ritrovano distribuite nelle due amate lampade arboree con i piedi ben saldi sul bancone. L’alabastro di Volterra, scelto apposta per le sfere, produce altra luce lattea come quella provocata dalle tende color avorio.
Faccio merenda con gin fizz e mandorle salate. La coppia di avvinazzati eleganti è sparita, una nuova di giovani inglesi si è appena seduta al tavolino sotto il Mirò. Ci sono quattro tavolini in faccia al lungo bancone a elle, costeggiato da dodici sgabelli sempre in marocchino verde. Della stessa pelle sono imbottite le poltroncine con lo schienale a semicerchio che si accordano ai tavolini in marmo rosso venato di bianco. Se si guarda sotto, la gamba bronzea, neanche a dirlo, mostra ancora lo zampino di Diego Giacometti. Alle mie spalle un giocatore di baseball in china sta per battere la palla, opera dell’eversivo Raymond Pettibon di Tucson, classe 1957. Vado matto per l’autoscontro polare dei cubetti nel bicchiere che ora incontra il miglior suono stradale possibile, quello del tram. Sopra il Rauschenberg la verticalità dei listelli di mogano ricorda lo slancio dei musi dei motoscafi Riva. Perdipiù lì accanto nasce il primo dei due movimentati volumi – uno nasconde il condotto dell’aria, l’altro è dovuto a una stanza sopra – ad angolo curvo che accentuano la sensazione nautica.
Alle due estremità del bancone sono ora appollaiati due habitué. Due gufi sono da scoprire alla base di due delle quattro ultime lampade bronzee con il paralume da club londinese. Il Klee non è evidente, ma neanche così nascosto: una delicatissima litografia del 1923 dai toni rosa-grigio con un funambolo. Il Ladykiller eccolo finalmente, per la tipa inglese accanto. È stato inventato qui nel 1984 da Peter Roth, barman storico ora in pensione che vinse i campionati del mondo ad Amburgo con questo cocktail. Gin, Cointreau, Apricot brandy, succo della passione, succo d’ananas. Più che gli ingredienti mi sembra degna di nota la guarnizione: una rosa fatta con scorza d’arancia, ciliegina infilata al centro, mentre la menta mima le foglie.