Il 2021, un anno davvero nuovo?

/ 18.01.2021
di Lina Bertola

Con un’intensità del tutto particolare, visti i tempi così difficili, ci siamo scambiati gli auguri di Capodanno. Molte e diverse le parole con cui abbiamo offerto alle persone care il nostro auspicio per un anno migliore. Dalla gettonatissima salute, alla sempreverde felicità, all’immancabile successo, fino alle più filosofiche pace e armonia. L’anno che verrà è stato invece accompagnato, come sempre, dalla sua insostituibile caratteristica: sarà un anno nuovo.

Nuovo è parola polisemica che rimanda a molteplici orizzonti di senso. Può essere nuovo un oggetto, un abito, ma anche una relazione, un sentimento o un pensiero che sappiano sostituire ciò che appare ormai superato, inutilizzabile o privo di senso. Nuovo può però indicare anche ciò che semplicemente si presenta a noi come altro: l’inatteso, il sorprendente, il «non ancora visto».

La differenza di significati non sembra trascurabile, sembra anzi suggerire sfumature diverse con cui il nostro sguardo sul presente si apre alla percezione del tempo e al suo continuo divenire tra passato e futuro. Per riuscire a pensare il nuovo è infatti sempre necessario saper stare nel tempo, abitare le sue durate, il suo farsi e disfarsi tra memoria e progetto.

Il compito appare piuttosto difficile perché oggi viviamo quasi ogni esperienza in tempo reale. A dispetto di quel continuo agitarsi che tanto ci è mancato nei mesi passati, viviamo perlopiù bloccati dentro una specie di eterno presente: un presente che si rinnova, eccome, ogni giorno, ma proprio per non passare mai, per non diventare passato. Tra innovazioni tecnologiche e algoritmi identitari, la piena disponibilità del mondo ci invita a sostare sulla superficie del tempo e ad apprezzarne la sua insuperabile attualità.

Ecco allora la domanda: in un’epoca che rischia di dimenticare il passato e di spegnere il futuro, saprà essere davvero nuovo il 2021?

Forse sì, perché il nuovo, così come lo pronunciamo oggi, sembra proprio volersi riconoscere in una percezione più autentica del tempo; sembra indicare il bisogno di ritrovarne un senso più ampio e profondo e di rimettere in movimento il suo continuo fluire. Il presente della pandemia, il presente delle difficoltà e delle sofferenze a cui non eravamo preparati, richiede con urgenza un superamento. Il re è nudo: deve gettare la sua maschera di meraviglioso assoluto; non può più sottrarsi al giudizio del tempo.

Il superamento del presente della pandemia, un presente diventato ingestibile e insopportabile, mette in scena uno strano rapporto tra passato e futuro. Un intreccio che può anche rivelarsi insidioso: il futuro è nel vaccino che ci permetterà di tornare al passato. Il futuro nel passato, insomma. Mai come in questo periodo mi è capitato di percepire tanta nostalgia, a cominciare dagli irrinunciabili racconti di sé esibiti online: quanti ricordi, quante foto della propria infanzia, immagini di tempi lontani, divenuti i luoghi più vicini di identità rinnovate.

Che cosa può significare questo desiderio di passato?

Forse una bellissima occasione, se saremo però capaci di evitare un’insidia sempre presente nell’idea di passato. Una bellissima occasione, se sapremo rinunciare alla tentazione di esaltare le meraviglie della cosiddetta normalità perduta; se sapremo rinunciare ad un approccio acritico alla realtà esistente, incapace di sospettare che proprio quella normalità sia stata almeno un po’ responsabile dell’attuale disastro. Il rischio, insomma, è quello di rimanere bloccati sulle evidenze di un mondo che c’è, di una realtà normale di cui è necessario prendere atto affinché tutto continui a funzionare bene.

Se saremo capaci di uscire da queste gabbie del vivere e del pensare, il passato potrà allora offrirci tutto il suo autentico significato come nutrimento del futuro. Una bellissima occasione per reimparare ad abitare le profondità di un tempo finalmente ritrovato e a viverlo in prima persona fin dentro il proprio intimo racconto: per riconoscervi nuove aperture e per immaginare nuovi volti del presente.

La libertà da coltivare oggi non è tanto, o non solo, quella un po’ riduttiva che ci è mancata durante l’emergenza sanitaria provocando sofferenze e insofferenze forse esagerate, spesso in conflitto con l’esercizio della responsabilità.

Per dare al nuovo il suo nome più vero è necessaria la libertà di andare oltre, di immaginare il possibile, di vedere il «non ancora visto». La libertà, insomma, di cambiare il nostro sguardo sul mondo per cercare di renderlo migliore.

È questa, credo, l’espressione più autentica del nuovo di cui abbiamo tanto bisogno. Il mio augurio è che sia proprio questo il momento propizio.