Idee confuse, militanti smarriti

/ 20.07.2020
di Orazio Martinetti

C’è agitazione nei partiti politici, regionali e nazionali. Il Plrt rimarrà presto orfano del suo presidente, Bixio Caprara. La macchina per individuare il successore è già in moto, ma nel contempo bisognerà fare i conti con i malumori della base, le delusioni degli esclusi, l’assenza di un progetto largamente condiviso. Sia ben chiaro: non è, quello dei liberali-radicali ticinesi, un caso isolato. Della crisi dei partiti, della loro eclissi, della loro atrofia, si discorre da decenni. I sociologi la riconducono al tramonto delle grandi famiglie ideologiche del Novecento, alle trasformazioni della società (diventata liquida, ossia sciolta dai solidi moschettoni che l’ancoravano alla tavola dei princìpi e dei valori), alla perdita di fiducia nelle istituzioni, al crescente individualismo fondato sulla ricerca del successo personale. Un tempo la scacchiera restituiva un’immagine ordinata: qui i pedoni della sinistra (comunisti e socialisti), là gli alfieri del liberalismo, ai lati le torri della dottrina sociale della Chiesa. Il crollo del muro di Berlino ha rovesciato i pezzi e riscritto le regole dell’agire politico; anzi, spesso le ha del tutto cancellate, lasciando briglia sciolta alla «mano invisibile» del mercato.

L’ascesa dei movimenti populisti ha sottratto energia ai partiti che fin dall’Ottocento hanno determinato le sorti del cantone. L’ultima bruciante sconfitta è intervenuta lo scorso anno alle federali con la sconfitta alla camera alta (Consiglio degli Stati). Sia Giovanni Merlini che Filippo Lombardi sono stati scavalcati dal blocco della destra (Udc-Lega con capofila Marco Chiesa) e dall’alleanza di sinistra (socialisti-verdi con Marina Carobbio). Un’estromissione che molti militanti hanno vissuto prima con incredulità e poi come un’onta a cui porre rimedio il più presto possibile.

Più rapida ancora è stata finora la perdita di consensi da parte del partito che si richiama all’insegnamento cristiano. Nella Svizzera tedesca e in Romandia il «fattore C» è ora sotto esame. L’attuale dirigenza sostiene che la denominazione attuale («Partito democratico cristiano») non rispecchi più le sensibilità della base, soprattutto tra i giovani. Intende quindi espungerla dalle sue insegne, per mantenerla solo negli statuti. In Ticino la questione non si pone, visto che l’aggettivo «cristiano» è stato soppresso già cinquant’anni fa (il che però non è bastato a frenarne l’erosione elettorale, segno evidente che le cause stanno altrove).

Il Partito democratico cristiano non è l’unica formazione politica che esibisce nel nome la sua appartenenza religiosa: il rimando è presente anche nelle file degli evangelici («evangelische Volkspartei»). Si è tuttavia creata una sorta di ambiguità, con il «cristiano» ridotto a «cattolico», suggerendo che le due comunità debbano stare in case diverse (e lasciamo ai politologi il compito di confrontare le due piattaforme ideologiche).

Un altro aspetto che non va dimenticato è la peculiare evoluzione del partito, più degli altri ancorato all’impalcatura federalistica del paese. Il Pdc ha avvertito meno degli altri l’esigenza di darsi un’organizzazione nazionale. La centralizzazione dei suoi organi è avvenuta con fatica e fra mille ostacoli. Le differenze definitorie altro non sono che il riflesso di questa divergenza di itinerari cantonali, frutto di sviluppi territoriali disuguali.

Che la confusione sia grande sotto il cielo della politica è evidente, e in tutti i segmenti della costellazione partitica. Si vuole capire, interpretare, magari anche trasformare, ma le categorie lasciate in dote dal secolo scorso non aiutano più. E questo non vale soltanto per il «centro», dove si collocano liberali e democristiani, ma anche per la sinistra. Che cosa significa oggi essere socialisti, o addirittura militare in un partito che si proclama orgogliosamente comunista? S’intende sotto questi vessilli ripercorrere esperienze otto-novecentesche, oppure imboccare strade ignote, tutte da costruire (ma con chi e con quali strumenti?).

Sul versante della destra simili domande sembrano meno urgenti. Forse perché basta aggrapparsi alla tradizione, o a formule di sicuro effetto, come «legge e ordine», «autorità e sicurezza», «no allo straniero». Tentativi spicci di ridurre la complessità della società odierna ad alcuni, pochi schemi elementari di facile assimilazione.

L’auspicio è che dalla confusione possa nascere e maturare una cultura politica rinnovata, capace di mettere assieme passato e presente, conquiste storiche e sguardo analitico, patrimonio ereditato e indagine diagnostica: un doppio fronte che ogni partito dovrebbe coltivare nei propri luoghi di riflessione e approfondimento: giornali, portali e associazioni.