I tre nastri in beton colorato di Zurigo

/ 25.04.2022
di Oliver Scharpf

Tram numero diciassette, tredici fermate, e una cinquantina di passi per pascolare tra le margheritine sull’erba di un prato in mezzo a due enormi palazzoni a zig zag, soprannominati «la muraglia cinese». Grünau: in questo angolo di mondo in stile cités malfamate, la cui prima impressione però è di una tranquillità estrema, cerco tre sculture percorribili nate nel 1977 (come me). Opera di Ralph Baenziger, classe 1940, architetto e curatore di un museo-galleria in una ex stazione ferroviaria dove raccoglie lasciti di artisti zurighesi misconosciuti come Marianne Wydler, specializzata in nature morte a tema cavolfiori. E alle dieci e mezza di un bel mattino verso fine aprile, trovo – con molta più facilità rispetto alle uova di Pasqua nascoste un tempo in giardino o le morchelle che ricerco, in questo periodo, quasi tutti i giorni – i tre nastri in beton colorato di Zurigo (398 m). Oltre il muro, dentro il cortile della scuola elementare di Grünau, parte del quartiere di Altstetten, si delineano nel cielo i loro percorsi inverosimili. Un paio di minuti e li raggiungo; campo libero, pensavo magari a qualche cancello chiuso per via delle vacanze pasquali. Di acqua, sotto i ponti, ne è passata: il beton colorato, senza vernice ma ottenuto attraverso i pigmenti di colore in polvere mescolati al calcestruzzo, è un po’ sbiadito. Eppure rivela dignitoso ancora la sua tonalità rosso terra di siena, giallo senape, e – più difficile, forse, da individuare se non si conosce la loro storia – il blu.

Giro irrequieto per catturare con lo sguardo più prospettive possibili e da ogni angolo la si guardi, la prima inufficiale rampa di skate zurighese, è di una bellezza da capogiro. I salti mortali, devono aver fatto, per costruirla. E infatti, le foto del cantiere rintracciate sul «Cementbulletin» del dicembre 1979, svelano delle strutture in legno acrobatiche per la messa in piega di questo «gioiello artistico di grande significato». Gettato in opera, il calcestruzzo che accarezzo ora, vissuto e sciupato ma proprio per questo ancora più grazioso, compie magnifiche giravolte. Se Baenziger si è forse ispirato dalla scultura intitolata Unendliche Schleife (1935) di Max Bill, sorge anche la corrispondenza con il nastro di Möbius: scoperto nel 1858 dal matematico e astronomo tedesco August Ferdinand Möbius, in realtà appare già in un mosaico marchigiano del terzo secolo dopo Cristo. Il loop però qui s’interrompe: la striscia blu, la più breve, a un certo punto termina la sua torsione in aria. E poi è opera aperta, la striscia gialla nasce dal suolo e continua innestandosi nel muro visto prima che forma diverse anse. Potete entrarci correndo sulla striscia che sale contorcendosi oppure nascondervi sotto il seguente arco, in ombra. Il nascondino è di certo una delle funzioni pensate per questa contorsionistica scultura da gioco.

I tre nastri di Baenziger, all’epoca giovane assistente di Walter Moser, artefice di questa scuola mezzo brutalista abbastanza bruttina con quel beton bocciardato deprimente e autore di chiese una più atroce dell’altra, s’incontrano tutti in un perimetro cavo. In origine era uno specchio d’acqua e lì vicino c’è ancora una triste fontanella senz’acqua. Troppo dispendiosa la presenza dell’acqua, pare, ma è una scusa ridicola se si pensa ai costi di tanti obbrobri pubblici. Ad ogni modo per via di quest’assenza «si omette l’estetico momento del riflesso, ma anche il gioco dell’acqua» osserva Gabriela Burkhalter, urbanista specialista di parchi giochi. Eppure anche senz’acqua e nonostante dei listelli antiskater, questo fantastico ghiribizzo architettonico giocoso sopravvive benissimo. Un ragazzino spuntato da non so dove si lancia a razzo sul pendio in beton blu scolorito, io percorro la scultura nella parte terra di siena: mi sdraio sulla convessità. E così, svaccato al riparo di un giro della morte come quelli delle montagne russe nei luna park, abbraccio con lo sguardo l’insieme di questo brutalismo ginnico. «Tre grosse tagliatelle» le aveva intitolate, in un suo disegno, un bambino di questa scuola dove tra l’altro la lingua madre di alcuni allievi è, per esempio, il tigrino, il telugu o il tagalog.