La conferenza annuale del Labour inglese si è chiusa questa settimana con una speranza: andare presto a votare. Il leader, Jeremy Corbyn, si prepara a un’investitura da primo ministro ormai da tempo, e anche se i sondaggi dicono che lo scontro con i Tory è alla pari – con questi Tory ridotti ai minimi termini è ancora più allarmante il pareggio – i laburisti sono certi: manca poco e saremo di nuovo al potere. Si tratta di creare l’occasione, e ovviamente l’occasione madre è la Brexit, perché il negoziato con Bruxelles sta andando male e a un certo punto la parola potrebbe ritornare agli elettori. Una parte di Labour sogna un nuovo referendum e a Liverpool, dove si è tenuta la conferenza, ci sono state manifestazioni e incontri animati dal People’s vote, un movimento che aveva poche chance di emergere nella cacofonia anti Brexit e che invece si è imposto come voce unitaria per portare il paese a riconsiderare l’uscita dall’Europa.
I dettagli in questo caso sono rilevanti. Il People’s vote vuole che tra le opzioni presentate agli elettori in un referendum ci sia anche quella del remain. Cioè gli inglesi devono avere la possibilità di dire: ci siamo sbagliati, abbiamo cambiato idea, vogliamo rimanere in Europa. Si tratta cioè di fermare la Brexit, invertire il suo corso, annullare l’esito referendario del 2016. Non tutto il Labour però è d’accordo su questa opzione e di certo non lo è Corbyn, che si è tenuto abilmente lontano dalla questione, nonostante sia stata votata, durante la conferenza, una mozione che non esclude questa possibilità. Corbyn non vuole ribaltare il 2016: si sa che lui troppo europeista non lo è mai stato. Vuole però negoziare con Bruxelles, cioè prendere in mano il governo e reimpostare le linee guida delle trattative. È per questo che dice che il «no deal», l’assenza di un accordo, è «un disastro nazionale», oltre che il fallimento di due anni di diplomazia, cui sono state dedicate buona parte delle risorse del Regno. È per questo che, tra referendum ed elezioni, il Labour preferisce di gran lunga la seconda opzione. È anche per questo che dice che il Labour voterà contro l’accordo dei Chequers del governo di Theresa May, che è l’unica opzione onnicomprensiva per ora sul tavolo ma che pare ormai defunta: non lo vuole nessuno, questo piano. Non lo vuole l’Europa, non lo vogliono i falchi della Brexit, e non lo vuole il Labour. Come possa sopravvivere non si sa, probabilmente non lo farà. Corbyn offre come alternativa la possibilità di negoziare un accordo che protegga i lavoratori inglesi e mantenga l’unione doganale con l’Unione europea: in questo caso, il Labour starà con il governo. Ma è un’ipotesi remota, e soprattutto: non c’è tempo.
In realtà il tempo è poco anche per un voto, che sia un referendum o, come spera Corbyn, un’elezione. Accordarsi sul quesito referendario pare quasi impossibile; per le elezioni in realtà si può andare più di fretta, ma prima deve crollare il negoziato con Bruxelles, poi deve crollare l’esito del negoziato in Parlamento e poi bisogna decidere che fare. C’è anche il termine stabilito dall’articolo 50 – che ha aperto le trattative – che scade il 29 marzo del 2019: revocare l’articolo 50 si può per via parlamentare, ma equivale a ribaltare la Brexit. Che ne sarebbe allora della volontà popolare espressa nel 2016?
Il Labour può permettersi di non rispondere a troppe domande: è comunque all’opposizione. Per i Tory invece la faccenda è più complicata. Si apre ora la conferenza del partito al governo a Manchester e si sa già che si starà a guardare se e come la May riesce a sopravvivere indenne ai continui attacchi fratricidi che ormai sono quotidiani. Un leader alternativo non c’è, e questa è stata la sua ancora di salvataggio finora, ma se non c’è nemmeno un piano condiviso per la Brexit, ormai allo scadere del tempo, diventa per la May difficile dare garanzie per il futuro. La May non vuole né un nuovo referendum né nuove elezioni, punta a portare a casa un accordo con Bruxelles, anche se pare anche lei spazientita. Ma quel che sfugge è che non soltanto l’ipotesi di non accordo è terrificante in termini pratici, ma è anche una minaccia per l’Europa stessa. Se il peso commerciale del Regno Unito dovesse spostarsi verso l’America, dove Trump è sempre stato abbastanza condiscendente nei confronti della Brexit, potrebbe inasprirsi ulteriormente il rapporto con l’Unione europea, che già non è idilliaco. E le conseguenze per gli europei, che oggi tengono il punto sulla Brexit perché non vogliono incentivare altre illusioni di uscite, potrebbero essere a quel pesanti: un blocco anglo-americano contro l’Europa è difficile da contrastare.