I pastori macedoni nella notte di San Lorenzo

/ 21.08.2023
di Melania Mazzucco

La prima cosa che vedo di lui è il fucile: l’occhio nero della canna puntata contro di me. Sto camminando su un costone, tra i sassi e l’erba stenta che ricopre di peluria il dorso di una montagna anonima, nell’Appennino abruzzese. Nonostante la bellezza scontrosa, le pareti di roccia verticali, le valli verdi, i villaggi medievali, la spina dorsale dell’Italia è per lo più vuota – uno spazio restituito alla fauna selvatica e alla natura, insieme grandioso e sinistro.

Non ci sono turisti, non ho incontrato nessun altro. Ho solo sentito un furente latrato. Gregge di pecore vicino. Un pericolo, perché i bianchi cani da pastore non permettono di avvicinarsi e ti aggrediscono se osi farlo. Per evitarli, ho abbandonato il sentiero, e procedo dall’altra parte del vallone, sotto vento, verso il rifugio. Ma l’uomo col fucile è stato allarmato dai cani, ed è spuntato dalla cresta, all’improvviso. Mi blocco, terrorizzata. L’uomo esplode in una risata infantile e abbassa l’arma, con sollievo. Ha avuto più paura di me.

Non saprei dire la sua età. Attorno agli occhi – di un verde cupo – si irraggiano le rughe. La carie o le percosse gli hanno fatto perdere i denti (due nell’arcata superiore, uno in quella inferiore). Il suo viso è perciò una maschera piuttosto spaventosa. È il pastore del gregge. Vive in un container un centinaio di metri più in basso: me lo indica con la mano ossuta. Si chiama Vlado, ed è tutto ciò che riesce e dirmi di sé. Tocca lo zaino, pretende da mangiare. Posso lasciargli solo un panino, una barretta energetica e un succo di frutta. Del cibo rimanente ho bisogno per arrivare al rifugio. La sua richiesta del resto mi insospettisce. Mi pare impossibile che le persone per cui lavora non lo riforniscano. Gli prometto che gli lascerò qualcosa al ritorno. Confesso che – benché io non sia sola – ho paura di quest’uomo, che mi fissa con insistenza. È armato. Vlado incamera le provviste, fischia ai cani e sparisce. Al ritorno, per prudenza, il mio compagno e io prendiamo un’altra strada.

In hotel, la sera, apprendo che il pastore è macedone. Ce ne sono parecchi, sparpagliati nei dintorni. Da anni, ormai. Qualcuno andò a prenderli dopo la fine della guerra in Yugoslavia. Sono bravi, gente esperta, montanari. Sanno come badare alle pecore. Costano poco. Vivono isolati, ciascuno sul suo pascolo, per tutta l’estate. Una vita dura. Nessun italiano vuol farla più. Ma è normale per loro.

Può darsi. Però la notte di San Lorenzo, mentre vaghiamo in auto in cerca di un prato per gustarci la pioggia di stelle, lo incontriamo di nuovo. E non ci fa meno paura della prima volta. Una sagoma emersa dalla notte si staglia nella luce dei fari e ci intima di fermarci. Non è una rapina. È Vlado, e vuole un passaggio. Indica a gesti il grappolo di luci del paese da cui proveniamo. Andiamo nella direzione opposta, ma lo facciamo salire. Ha camminato ore nel buio, per scendere fin qui. Avrà una buona ragione.

La ragione sono Darko e Luka, altri due pastori macedoni. Si incontrano in uno spiazzo prima delle case, perché non vogliono farsi vedere (forse in paese ci sono i padroni delle pecore, che hanno lasciato incustodite). Luka, barba folta, occhi di cielo, lo abbraccia e lo accarezza. Vlado è suo cugino, mi dice, lo ha portato lui in Italia. Non poteva restare al suo villaggio. Toccato, o traumatizzato dalla guerra – non me lo spiega. Un peso inutile, lì. Perfetto qui. Non si lamenta, sopporta, sorveglia e minaccia – come i suoi cani. Darko gli passa una busta con scatolette di tonno e un pacco di riso – perché, ride, nessuno si ricorda di Vlado, lassù. Non è una pecora, che può brucare l’erba. La fame lo porta a valle, come un lupo. Perché non va a caccia? chiedo. Ci sono le lepri, pure le quaglie. Il suo fucile non ha cartucce, spiega Luka. Gliel’hanno dato per farlo sentire al sicuro. Vorrei dirgli che nessuno dovrebbe essere trattato come un cane, o un lupo, nel mio paese, e che non lo accetto. Ma non lo faccio. Li lascio insieme, a raccontarsi chissà cosa, finché la notte nera li nasconde.

Adesso, ogni volta che scorgo un bioccolo di lanugine, nelle valli deserte degli Appennini, mi chiedo se in quella brutale e inumana solitudine il pastore macedone vittima di guerra ha trovato l’ultima umiliazione, o un’inattesa forma di libertà.