I minatori e il parassita dai denti aguzzi

/ 11.05.2020
di Orazio Martinetti

Lo sconquasso provocato dal coronavirus ha riportato al centro della scena il rapporto tra la politica, la medicina, gli esperti e, più in generale, il ruolo della scienza nella nostra società. Una concezione di solito fondata sulla fiducia, ma anche venata di dubbi e pregiudizi, perfino di superstizioni, com’è accaduto intorno alla questione delle vaccinazioni («movimento no-vax»). Questa volta, forse in modo più nitido che in precedenti occasioni, ci si è resi conto che la medicina non è una scienza esatta e onnisciente; anzi, si è scoperto che anche del settore di cui si occupa, la salute umana, esistono terre incognite ancora da esplorare, in grado di riservare sorprese amare, com’è appunto l’universo virale. Parecchio stupore ha destato nell’opinione pubblica il disaccordo regnante tra gli stessi specialisti, virologi in lite tra loro sull’effettiva gravità del fenomeno e sulle misure per combatterlo. Un disorientamento comprensibile. Ma proprio qui risiede la forza della scienza, nella capacità di riconoscere gli errori, di farne tesoro e di procedere oltre.

Di questa faticosa indagine, tra tentativi e ripensamenti, successi parziali e fallimenti, la storia della scienza abbonda di esempi. Uno di questi, e non di secondaria importanza, ebbe come teatro anche le nostre contrade, in particolare il massiccio del San Gottardo durante la costruzione della galleria ferroviaria, aperta al traffico nel 1882. Era successo che due anni prima l’inaugurazione s’era propagata negli addetti allo scavo una strana malattia, definita come «anemia dei minatori». Gli effetti sull’organismo erano visibili e tangibili (pallore, aspetto cadaverico, debolezza cronica), ma l’eziologia rimaneva oscura. I medici condotti propendevano per l’ipotesi dell’intossicazione, derivata dalle precarie condizioni di lavoro e dai fumi sprigionati dalle perforatrici all’avanzamento. No, non era questa la causa, come dimostrarono anatomisti italiani dopo aver sezionato i corpi di alcuni lavoratori rientrati al loro domicilio in Piemonte. Il morbo dato per indecifrabile altro non era che l’anchilostoma («Ancylostoma duodenale»), un parassita vermiforme d’origine tropicale e particolarmente attivo in ambienti umidi come le paludi, le miniere e le risaie. Le autopsie sui deceduti avevano portato alla luce copiose colonie di questi vermi annidati nel duodeno. All’esame microscopico il parassita si presentava sotto forma di un «filamento» (nematode) dotato di una bocca a ventosa dalla quale spuntavano denti aguzzi piegati ad uncino: un dispositivo che gli permetteva di aggrapparsi alla mucosa intestinale per succhiare il sangue di cui era ghiotto. Di qui l’anemia, che col tempo avrebbe portato il portatore alla morte.

Rimanevano da chiarire il canale d’ingresso del verme nell’organismo umano e i rimedi terapeutici. La risposta giunse da alcuni luminari della parassitologia italiana, con alla testa il professor Edoardo Perroncito, docente all’università di Torino. Circa il primo punto, era stato possibile appurare che il contagio avveniva attraverso l’epidermide degli arti immersi nell’acqua fangosa del tunnel: il verme era in grado di sfruttare ogni piccola lesione, ogni ragade, ogni screpolatura della cute per raggiungere l’intestino e qui riprodursi velocemente. Sul lato della cura, la soluzione fu individuata nel trattamento a base di estratto di felce maschio somministrato in forti dosi.

Questa ampia mobilitazione di studiosi di elmintologia (la branca che si occupa dei parassiti) permise di risolvere entro pochi anni un’anemia che, se non contrastata, avrebbe decimato un’intera generazione di minatori impegnati nei trafori alpini.

Il focolaio del Gottardo fece scuola: la ricostruzione del ciclo vitale del verme consentì di mettere a punto un efficace dispositivo di cura e profilassi, tant’è che lo stesso Perroncito poté affermare nel 1910 che la questione poteva dirsi risolta.

La vicenda dell’anemia – che il dottor Raffaele Peduzzi ha ripercorso accuratamente in numerosi saggi – conserva dunque una sua esemplarità per come si è svolta e per come è stata affrontata dalla scienza medica del tempo: prima lo stupore, il senso di impotenza e le diagnosi errate; poi la scoperta del patogeno, il dibattito tra specialisti, l’approntamento della terapia. Da quell’iter scientifico conclusosi felicemente derivarono protocolli preventivi fondamentali per le successive grandi opere del genio civile (Sempione-Lötschberg). Un percorso che val la pena di ricordare, anche se molto probabilmente questa volta il cammino sarà più tortuoso e sfiancante.