I miei doni

/ 13.12.2021
di Melania Mazzucco

Nel mondo classico agli ospiti in procinto di partire i padroni di casa offrivano doni. I romani li chiamavano xenia. Marziale, che ne propose la versione letteraria in sapidi epigrammi, ci insegna che erano alimentari: lenticchie, orzo, grano, biete, lattuga, rape, porri, asparagi e sorbe, pigne, caci, salsiccia, cipolle e melograni. Ma anche oggetti da portar via (apophoreta): stuzzicadenti, coltelli, parasole, astucci, pettini, penne, lampade, anelli e calici. Vitruvio precisa che il dono poteva consistere in un quadro: pittori anonimi vi avevano dipinto le cibarie di cui durante il soggiorno gli ospiti si erano nutriti. Onorare l’ospite era un dovere sacro, poiché ogni sconosciuto straniero potrebbe essere un dio in incognito.

La più emblematica storia di ospitalità della mitologia greca ce l’ha tramandata Ovidio nell’VIII libro delle Metamorfosi. Giove e Mercurio vagano per la Frigia e sono stanchi. Il primo ha assunto aspetto umano, l’altro ha deposto le ali: come semplici uomini chiedono dunque accoglienza. «Bussarono a mille case, in cerca di un posto in cui riposare; mille case sprangarono la porta». Ma infine una porta si apre: è di una capanna col tetto di paglia e canne di palude, dove due vecchietti, Filemone e Bauci, vivono in dignitosa povertà, confortati solo dal reciproco amore. I due offrono ai viaggiatori un giaciglio fatto con un sacco d’erba di fiume e vi stendono una coperta logora, poi approntano il pranzo su un tavolino traballante (per pareggiare le zampe, usano un coccio rotto). Una spalla affumicata di maiale (talmente coriacea che devono ammorbidirla nell’acqua bollente), olive, indivia, corniole, ravanelli, latte cagliato e uova cotte nella cenere. Seguiti da noci, fichi secchi, datteri grinzosi, prugne, mele, uva. Servono in povere stoviglie di terracotta e versano vino da un boccale pure di terracotta. Ma questo vino non si esaurisce mai. Stupefatti, comprendono di essere in presenza di creature soprannaturali e si scusano per le loro umili pietanze. Si accingono quindi a sacrificare la loro unica oca. Che però subodora il potere degli ospiti, e starnazzando si nasconde fra le loro gambe.

Gli dèi allora si manifestano ed esprimono il loro sdegno verso gli inospitali abitanti di quel paese. Distruggono la Frigia, sommergendola con le acque: salvano solo la capanna di Filemone e Bauci. La trasformano in un tempio e si offrono di esaudire qualunque loro desiderio. Filemone e Bauci si consultano: sono d’accordo, come sempre, e il loro unico desiderio è diventare sacerdoti del tempio, restare insieme e insieme morire. Affinché lui non debba mai vedere la tomba di sua moglie, né lei tumulare lui. E così avviene, finché un giorno, mentre sfiniti dagli anni sostano alla base del tempio, si vedono a vicenda ricoprirsi di fronde, i corpi divenire tronchi, e loro due alberi – un tiglio e una quercia, vicini per sempre.

I doni per gli ospiti, xenia, erano insieme regali d’addio e pegni di memoria. Affinché, ovunque lo portassero le strade, lo straniero serbasse un ricordo della casa in cui era passato e del bene, pure effimero e modesto, che vi aveva ricevuto.

L’idea che l’ospite possa essere un dio nascosto mi ha affascinata ancor prima di conoscere l’usanza greca e poi romana. Del resto è un mito comune a tutte le culture del mondo. L’ebraica per prima, perché nella Bibbia è l’Angelo (manifestazione del Dio visibile, e suo emissario) a visitare Abramo seduto all’ingresso della sua tenda, per sondare la sua fede; Sara, per annunciarle la tardiva e inattesa gravidanza; Lot e gli abitanti di Sodoma, prima della distruzione della città. L’angelo non ha alcuna intenzione di farsi riconoscere come messaggero di Dio, e si presenta come uomo proprio per mettere gli uomini alla prova. Chi lo onora sarà salvo, chi lo disprezza distrutto. Athiti devo Bhava, L’ospite è Dio, si dice anche in India – e pure lì si intende messaggero ed epifania. E un versetto del Corano riconosce la vera pietà in chi è disponibile a donare una parte dei propri beni non solo ai poveri e agli orfani ma «ai figli del cammino».

La mia casa sono i libri che scrivo. Chiunque mi legge è mio ospite benvenuto. Gli lascerò dunque, finché sarò ospite delle pagine di «Azione», xenia da portare con sé. Non ho orto né vigna, né cibo del mio campo, nemmeno un’oca da sacrificare. Non ho altro da offrire che storie. Di ospitalità, riconoscimento, o rifiuto, di viaggio, fuga, ritorno. Storie che a mia volta ho ricevuto in dono. Regalerò storie come olive, datteri e vino. Convinta che allo stesso modo offrano nutrimento, cura e sollievo nel cammino.