Sono settimane molto difficili, queste, per Facebook. La crisi è cominciata con la testimonianza al Congresso di Frances Haugen, ex manager della società di Mark Zuckerberg, che ha condiviso con il «Wall street journal», poi con il Congresso americano e infine con molte altre testate giornalistiche, tanti documenti interni di Facebook. Trentasette anni, master ad Harvard, una vita nella Silicon Valley e l’arrivo a Facebook nel 2019, Haugen ha organizzato nei dettagli il suo atto d’accusa. Non è una whistleblower improvvisata, tutt’altro.
La sua denuncia è circostanziata, meditata e ben finanziata (da se stessa principalmente) e lei ha un piglio molto deciso, che la rende decisamente credibile. Il materiale che ha portato è gigantesco: i suoi legali l’hanno editato, organizzato e poi presentato al Congresso. È quello che ora conosciamo come «Facebook papers», i documenti che Haugen ha condiviso con parecchie testate, oltre che presentarlo lei stessa nelle trasmissioni televisive cui ha partecipato. Il «Wall street journal», primo destinatario di questi leak, non ha preso bene questa condivisione, ma Haugen ha detto che il quotidiano ha lasciato indietro molte questioni presenti nei documenti e che i «Facebook papers» sono di fatto gli «scarti» del «Wall street journal».
La potenza di questa operazione è evidente a tutti: in diciassette anni di vita Facebook ha affrontato molte crisi, ma ora pare di fronte alla tempesta perfetta. I giornalisti studiano, i media riprendono, il Congresso americano, dopo lunghi periodi in cui gli stessi deputati e senatori sembravano poco informati e un po’ incompetenti, ha raggiunto un consenso politico bipartisan: Facebook va regolamentato, è pericoloso. Mark Zuckerberg è il primo a essere consapevole della rischiosità di questa azione, perciò valuta cambiamenti di nome per spostare l’attenzione e conta anche sul fatto che il Congresso non sta più accettando la tesi degli altri social, che sostengono di essere molto meno pericolosi di Facebook. È tutto il sistema a essere malfunzionante. Se nuove regole saranno, almeno varranno per tutti. Ma per ora la strategia della distrazione di Zuckerberg non sta ottenendo grandi risultati: se tutti i social hanno algoritmi dalle conseguenze perverse, quello di Facebook è più perverso degli altri. O almeno così sostengono i «Facebook papers».
Oltre a consultare i documenti forniti da Haugen, i giornali stanno facendo anche molte interviste ai dipendenti di Facebook e tutte le chiacchierate vanno nella stessa direzione: c’è una premeditazione nella strategia di crescita di Zuckerberg e i dissidenti interni all’azienda che hanno segnalato e descritto le conseguenze pericolose di questo approccio sono stati silenziati. Di più: le soluzioni offerte da questi stessi dissidenti sono state insabbiate, come se non fossero mai esistite. Per il management di Facebook l’engagement, quindi la condivisione dei contenuti, anche quelli non verificati, vale più della sicurezza, cioè, dicono i commentatori, Zuckerberg adotta un approccio antidemocratico e lo fa deliberatamente.
Un esempio: per le presidenziali americane di un anno fa, Facebook si era attivato. Il timore di uno scontro che poteva diventare violento era concreto e Zuckerberg non voleva essere accusato di omissione di controllo o di ingerenze varie, come già era accaduto alle presidenziali del 2016. Dopo le elezioni però, nonostante il pericolo di un cosiddetto golpe da parte dei trumpiani (che non accettano che Joe Biden abbia vinto le elezioni) fosse sempre più grande, Facebook ha riabbassato la guardia. Così c’è stato l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio e Facebook ne è stato uno strumento attivo e non inconsapevole. Zuckerberg aveva dichiarato di essere «addolorato» per quel che era accaduto in quella giornata nera per l’America, ma i suoi dipendenti gli avevano detto: non possiamo continuare a comportarci come un’entità neutrale, perché non lo siamo più da tanto tempo e anzi noi stessi abbiamo contribuito ad aumentare lo scontro. Lui li ha ignorati. Ed è di questo che oggi viene accusato: di ignorare il proprio ruolo nell’erosione del dibattito pubblico e della sicurezza, che non è soltanto una faccenda di buone maniere e buona educazione, ma riguarda sempre più e in modo chiaro la (non) istigazione alla violenza.
I meccanismi perversi di Facebook
/ 01.11.2021
di Paola Peduzzi
di Paola Peduzzi