In questo anno dantesco, mi è capitato più volte di dover rispondere a bruciapelo alla domanda: quale canto della Divina commedia preferisci? Un po’ per non cadere nel solito riflesso automatico di evocare i lussuriosi Paolo e Francesca o Ulisse; un po’ per il motivo che spiegherò in questo articolo, ho risposto quasi sempre: il canto di Brunetto Latini, cioè, restando all’Inferno, il XV. Ci sono indubbiamente canti più belli. Per quale motivo, dunque mi ostino a citare il canto in cui Dante celebra il suo vecchio maestro Brunetto, pur collocandolo tra i dannati per sodomia, ovvero per aver compiuto un peccato definito contro natura? Intanto, per questo, perché sento una gran pena verso un’anima che – senza nessuna colpa se non quella (tra l’altro molto presunta) di aver amato persone del suo stesso sesso – viene condannata per l’eternità a girovagare su un sabbione incandescente tempestato da una pioggia di fuoco. E senza neppure potersi fermare: infatti, come lo stesso Brunetto spiega a Dante, se dovesse fermarsi a chiacchierare con lui, sarebbe costretto a passare cent’anni immobile su quella sabbia infuocata. Sono le crudeltà che il poeta infligge anche alle anime per cui prova pietà (Francesca da Rimini) o stima al massimo grado (Ulisse, per esempio). Ma Brunetto a me fa ancora più compassione degli altri anche perché è, con Virgilio, il vero maestro, che Dante adora come tale, per altro ampiamente ricambiato.
Già il momento dell’incontro è un colpo al cuore, anzi due. Quando Brunetto incrocia il suo allievo da quelle parti, nel terzo girone del settimo cerchio, ha un sussulto: «Qual maraviglia!», e l’altro, con tanta pena e quasi con un moto di pudore vergognoso nel ritrovarlo tra i sodomiti, esclama: «Siete voi qui, ser Brunetto». Un doppio sospiro a rimbalzo, dove il peso cade come un macigno su quell’avverbio di luogo (qui): uno dei sussulti di sorpresa più felici e malinconici insieme della letteratura. Come se due persone che non si vedono da tantissimo tempo si incontrassero in un contesto sconveniente e imprevisto… Prevale la gioia o l’imbarazzo?
Il passo capitale è tutto nella confessione del pellegrino che rammemora «la cara e buona imagine paterna» dell’insegnante capace di illustrare al giovane discepolo «come l’uom s’etterna», cioè i segreti della letteratura. Non c’è grandezza in Brunetto che celebra il suo allievo, lo esalta, gli predice gloria perenne (ma in definitiva non dimentichiamo che è Dante a predirla a sé stesso) e alla fine, congedandosi, lo prega di far sì che la sua opera nel mondo dei vivi non venga dimenticata. Non è un eroe, il povero Brunetto, ma è stato indubbiamente un maestro magnanimo. Lì accanto a Dante, tra l’altro, sentiamo la presenza incombente e silenziosa di Virgilio: anzi, tanto più incombente perché silenziosa e in ascolto. È Virgilio l’altro maestro e noi sappiamo che è un maestro gigantesco, certo più grande di Brunetto Latini.
Insomma, il XV dell’Inferno è il canto che celebra la figura dei maestri. È il canto in cui Dante ci fa capire che essere maestri significa essere padri benevoli, illuminati e severi, e che essere allievi significa saper essere figli, ovvero coltivare l’ammirazione e la gratitudine per i propri genitori senza rimanerne schiacciati. E dunque ogni volta che leggo questo canto, penso alla fortuna di aver avuto maestri giganteschi e così diversi tra loro. Penso a una vita illuminata da queste presenze generose e fecondanti. E lo penso ancora di più, non a caso, in questi giorni in cui ricorrono i cent’anni dalla nascita di Giorgio Orelli (25 maggio). E lo stesso penso di Cesare Segre e di Maria Corti, e lo stesso di Giovanni Orelli, cugino di Giorgio, che è stato mio professore di liceo. Penso a una vita immeritatamente piena di incontri con giganti generosi a cui non voglio dare nessun voto d’aria perché sarebbe contro natura che un allievo desse voti ai maestri e la colpa sarebbe ben più grave di quella del povero Brunetto.
Fatto sta che sfogliando una vecchia agenda, sotto la data 27 giugno 2001 c’è la scritta a mano «pranzo con Giorgio e Mimma all’Antica Osteria Cavallini, via Mauro Macchi». Eravamo a Milano e quel giorno Giorgio doveva consegnare una nuova raccolta di poesie, Il collo dell’anitra, a Gianandrea Piccioli, acuto direttore editoriale della Garzanti. Ricordo che ci parlò del Fiore, il poemetto che Gianfranco Contini attribuì all’Alighieri e su cui Giorgio stava lavorando con il solito entusiasmo scoprendo, tra l’altro, che in certi versi si trova, criptato, il nome di Dante. A proposito di Contini, Giorgio diceva che il buon maestro sceglie una sua direzione, indicando però agli allievi anche altre strade. Dice: io continuo ad andare a Ovest, ma tu prova ad andare a Est… Era stato Contini a segnalargli una possibilità di lettura cosiddetta «verbale» della poesia, cioè legata al suono. I maestri vanno sempre discussi, diceva Orelli, citando Nietzsche: «Si ripaga male un maestro, se si rimane sempre e solo discepoli».
I maestri che meraviglia!
/ 17.05.2021
di Paolo Di Stefano
di Paolo Di Stefano