Non era difficile prevedere che sarebbero stati Giochi olimpici importanti per il mondo. Sono stati in forse sino all’ultimo. Il popolo giapponese in larga parte era scettico se non apertamente contrario. Eppure sono stati un successo. E passeranno alla storia come i Giochi della ripartenza, o meglio ancora della resistenza, nel pieno di una pandemia che all’evidenza non è ancora finita. Per la Svizzera è stata una buona edizione: tre ori non sono mai scontati; e siccome era ancora vivo il ricordo del bel campionato europeo di calcio disputato dagli elvetici, che hanno eliminato i francesi campioni del mondo, si può dire che per la Svizzera dello sport è un ottimo momento.
In Italia è stata vissuta come l’Olimpiade del campione ignoto; in cui chiunque può tentare di specchiarsi e riconoscere un tratto di sé. Pietro Mennea e Sara Simeoni li conoscevano tutti. Erano forse l’uomo e la donna più famosi d’Italia, tipo Celentano e Mina. Jacobs, Tortu, Patta e Desalu (i vincitori della staffetta 4 per 100) fuori dalla cerchia degli appassionati non li conosceva quasi nessuno. E sono state meravigliose sorprese.
Certo, i campioni bisestili, che spuntavano dal nulla ogni quattro anni e nel nulla tornavano sino all’Olimpiade successiva, ci sono sempre stati. Ma salivano sul podio di altri, dignitosissimi sport, dal tiro alla vela; non nella disciplina olimpica per eccellenza, l’atletica.
Ovviamente ci sono delle spiegazioni. Il calo d’attenzione verso gli sport diversi dal calcio. Le differenti storie degli atleti. L’oro di Mosca 1980 fu per Pietro Mennea e Sara Simeoni la consacrazione di un percorso straordinario, iniziato nel drammatico quadro di Monaco 1972. Entrambi erano primatisti del mondo. Lamont Marcell Jacobs è esploso all’improvviso e Filippo Tortu ha sorpreso persino se stesso. Più in generale, se avessimo sottoposto la lista dei partecipanti a Tokyo 2020 al pubblico medio dei social, forse solo Federica Pellegrini e Aldo Montano sarebbero stati riconosciuti (ed entrambi sono stati eccezionali anche al passo d’addio). Quasi tutti gli altri atleti non facevano parte dell’immaginario e della vita pubblica. In pochi giorni, è cambiato tutto.
Non è stata una grande Olimpiade per lo sport italiano. È stata una grandissima Olimpiade per l’atletica italiana: lo sport della tenuta e della sofferenza, dell’energia fisica e morale, in cui si deve davvero andare sempre più veloce, sempre più in alto, sempre più forte. Ma ovviamente il bilancio di Tokyo 2020 (i Giochi si chiamano così anche se si sono svolti nel 2021) non può essere limitato alle varie Nazioni (gli Usa hanno superato la Cina vincendo nove ori nell’ultimo giorno, la Germania si è detta soddisfatta, la Gran Bretagna si muove ancora sull’onda lunga di Londra 2012, la Francia che sarà padrona di casa nel 2024 esulta per la bella prestazione negli sport di squadra, oro nella pallamano maschile e femminile, oro nel volley maschile, argento dietro gli Stati uniti nel basket maschile, bronzo nel basket femminile ecc.), né può essere limitato al solo ambito sportivo. Certo, l’Olimpiade è innanzitutto un fatto di sport. Ma per la sua dimensione universale inevitabilmente assume un significato che riguarda la vita di tutti noi.
Si sapeva che sarebbe stata un’edizione carica di simboli. Era giusto farla. Il catastrofismo iniziale era fuori luogo. Il mondo riparte anche da qui. In Italia si è parlato molto delle vittorie dei neri italiani. Espressione che ha poco senso, sarebbe meglio dire italiani e basta. Ovviamente un oro olimpico non risolve una questione epocale come l’immigrazione, ma aiuta a capire che grazie ai nuovi italiani – o svizzeri, o generalmente europei – arriveremo in posti che finora ci erano negati, faremo cose che prima non ci riuscivano. E il fenomeno Jacobs non deve far dimenticare un altro prodigio: quello di Vanessa Ferrari, che ha conquistato una medaglia olimpica nella ginnastica al quarto tentativo e a trent’anni compiuti, in uno sport dove sino a non molto tempo fa una diciottenne era considerata vecchia.
A Rio, Vanessa aveva raccontato così la sua infanzia: «Mia madre cercava disperatamente in me una qualche forma di talento. Mi regalò tutte le cassette dello Zecchino d’oro; non le ho mai ascoltate. Mi fece sentire la musica classica; da allora la detesto. Mi regalò la carta Fabriano e i pastelli a cera; ma non sapevo dipingere. Mi fece recitare, ma ero talmente incapace che mi diedero il ruolo di coniglietto; dopo le proteste di mamma fui promossa principessa; sul saluto finale al pubblico inciampai nel vestito e rotolai sul palco». Poi scoprì la ginnastica. Ma il vero talento di Vanessa Ferrari e dei nostri campioni più o meno conosciuti non è fare salti, che possono riuscire a tanti; è resistere, un giorno o un minuto più degli altri. Non è vero, come dice il titolo di un libro peraltro molto bello, che «resistere non serve a niente». Resistere è il vero sport universale. Resistere è l’unica cosa che un po’ tutti noi possiamo fare.
I Giochi della resistenza
/ 16.08.2021
di Aldo Cazzullo
di Aldo Cazzullo