Io sono nato nel ghetto di Asti e nessuno me lo ha detto. L'ho scoperto leggendo I giorni del mondo di Guido Artom: «Il ghetto era formato da due stradine che si incrociavano e si aprivano ogni tanto in vicoli ciechi, in cortiletti, in uno slargo esiguo e privo di luce. La strada principale si chiamava Contrada degli Israeliti, l'altra San Bernardino. In questa strada, la minore delle due, sorgeva il Tempio, la scola, costruzione modesta, ma dalle porte dorate, sormontate da versetti biblici in ebraico. C'erano bottegucce: il macellaio, assai importante, perché accanto al suo banco il rabbino stesso sorvegliava che la macellazione avvenisse secondo i riti, un falegname, un venditore di acciughe in barile....»
La mia famiglia affittava un appartamento nella casa di quel venditore. I Delpui venivano da Moschiéres, un paese della val Maira, in provincia di Cuneo. In quegli anni, il Duce dimezzava le tasse quando una famiglia arrivava al settimo figlio. Ai Delpui la settima figlia, Romanina, nacque il 25 luglio del 1943, il giorno della caduta dal fascismo. La casa era in via Ottolenghi, così si chiama dal 1874 il vicolo di San Bernardino e mia mamma aveva il negozio in via Aliberti, quella che un tempo era la contrada degli Israeliti. Mio padre era sotto le armi, io trascorrevo interi pomeriggi parcheggiato come un piccolo Budda in quel negozio di parrucchiera. Ascoltavo i discorsi delle clienti che parlavano liberamente, credendo che io fossi troppo piccolo per capire qualcosa di quelle meravigliose storie di sotterfugi e di inganni per sfuggire ai controlli dei padri e dei mariti. Non perdevo una parola. C'è da dire che in quelli anni c'era scarsità di materia prima, gli uomini validi erano al fronte o nascosti in campagna. Si poteva andare da casa nostra al negozio senza mai uscire in strada all'aperto, attraversando cortili, cunicoli, cantine, scale.
Fino al 17 febbraio del 1848, con le lettere patenti del re Carlo Alberto, agli ebrei rinchiusi nel ghetto era vietato uscire in strada dopo il tramonto del sole. Per intere estati abbiamo giocato a nasconderci usando quei passaggi segreti. Per quegli anditi umidi e bui vennero fatti passare, nei giorni successivi all'8 settembre 1943, i soldati in fuga dal Regio Esercito che cercavano abiti borghesi per non farsi riconoscere dai tedeschi. Per anni saremmo stati vestiti con la stoffa di quelle divise abbandonate, ritinta dal grigioverde al nero.
C'è, sepolto fra le memorie della prima infanzia, il ricordo di un lontanissimo lunedì, giorno di chiusura dei parrucchieri. In quel giorno, dopo aver messo in una borsona i ferri per arricciare i capelli, i pettini, il phon, le forbici e un po' di asciugamani e mantelline, mia madre mi aveva preso per mano e portato con sé in un grande palazzo rosso, non lontano da casa nostra, due strade più in là. Le prime due rampe di scale erano larghe, poi man mano che si saliva si restringevano fino all'ultima che portava in soffitta. Lì, sul piccolo pianerottolo, davanti alla porta chiusa, seduti sugli sgabelli, sostavano due soldati tedeschi. Io non avevo paura dei tedeschi perché tutti i giorni, quando verso le cinque mi mandavano con la caraffa d'alluminio a comprare il latte fresco, ne trovavo uno dentro la latteria che mi faceva sedere sulle sue ginocchia, mi mostrava delle foto di bambini tirandole fuori da un portafoglio sdrucito e mi comprava un bastone di liquirizia o un pezzo di surrogato di cioccolata. Mia madre aveva aperto la borsa, mostrato i ferri del suo mestiere e le sentinelle ci avevano fatti passare. Ricordo una grande mansarda sotto i tetti, con il soffitto inclinato dal centro verso le pareti esterne sulle quali si aprivano piccole finestre. In mezzo al salone, una stufa con il tubo che saliva verso l'alto; da quel tubo partivano corde che terminavano tese contro le pareti. Sulle corde erano stese lenzuola, coperte, cappotti, pellicce. Mi facevano pensare a gigantesche fette di torta. Ricordo un gran brulicare di vita. Mia madre si era fatta dare una sedia e l'aveva sistemata vicino alla stufa sulla quale scaldava l'acqua per lavare i capelli. Per tutta la mattina su quella sedia si erano alternate signore anziane e giovani ragazze; mia madre tagliava capelli, metteva bigodini, creava riccioli con i ferri dopo averli scaldati. Io ero un bambino che osservava tutto ma non chiedeva mai spiegazioni e in quella circostanza mia madre non si sentì in dovere di darmene.
Molti anni dopo sono venuto a sapere che quel grande palazzo rosso era il seminario arcivescovile e tutte quelle famiglie ricoverate nella camerata sotto i tetti erano composte da ebrei radunati lì in attesa del primo treno che li deportasse in Germania. Quelle ragazze e quelle signore si preoccupavano di avere i capelli in ordine prima di partire. Forse ignoravano che stavano per essere condotte alla morte. Di tutte quelle vite rimane solo la lista di 44 nomi di ebrei, su una lapide appesa al muro di quella che un tempo era stata la Sinagoga.