I calcoli sbagliati di Putin

/ 30.05.2022
di Paola Peduzzi

A fine giugno a Madrid si riunirà la famiglia allargata della Nato: il premier spagnolo, Pedro Sánchez, ha detto che darà il benvenuto ai nuovi arrivati, la Svezia e la Finlandia. L’Alleanza atlantica, che era nata proprio come strumento militare difensivo nei confronti dell’allora Unione sovietica, ha attraversato una grande crisi di identità nell’ultimo decennio: il presidente francese, Emmanuel Macron, era andato molto oltre, sentenziandone la morte cerebrale. L’aggressione della Russia all’Ucraina ha cancellato tutto, la crisi e il coma, e l’Alleanza ha ritrovato la dimensione strategica che era alla base della sua stessa fondazione. E lo ha fatto in tempi straordinariamente ridotti se si pensa a quanto le riforme delle istituzioni internazionali sono lunghe e controverse: l’adesione formale ancora non c’è ma Regno Unito e Stati Uniti hanno già detto di essere pronti a difendere i due nuovi paesi fin da subito se dovessero essere aggrediti.

I problemi di convivenza ci sono ancora, naturalmente e riguardano in particolare la Turchia, che vede l’allargamento della Nato come un’opportunità per far pesare il suo voto e ottenere un tornaconto (in particolare: nuove forniture militari e la possibilità di colpire i curdi), ma sono pochi in confronto ai timori di Vladimir Putin. Di tutti gli effetti non calcolati dal presidente russo in questa sua guerra il rafforzamento della Nato è forse il più spettacolare. La propaganda putiniana dice che l’aggressione all’Ucraina è stata determinata dall’accerchiamento operato dalla Nato: se si guarda la cartina geografica, si capisce che non c’era alcun accerchiamento, si trattava soltanto di retorica vittimistica per ribaltare le categorie aggressore-aggredito a vantaggio di Mosca. Eppure questa finzione ha causato il raddoppiamento dei confini che ora la Russia condivide con la Nato, l’esatto contrario di quello che voleva Putin, cioè creare territori-cuscinetto (sotto la sua influenza) tra sé e l’Occidente.

Le conseguenze dell’ingresso della Finlandia e della Svezia nella Nato sono ampie, e quando Mosca dice che non è affatto preoccupata di questo nuovo assetto, mente. Due esempi. Al momento il confine nord della Russia con la Nato, cioè con la Norvegia, è lungo 150 chilometri, ma concretamente un accesso militare via terra sarebbe possibile soltanto in un breve tratto di circa trenta chilometri ben presidiato dai battaglioni russi della divisione artica. In altre parole: la Russia respingerebbe facilmente un eventuale sconfinamento della Nato (come si sa non è nelle intenzioni dell’Alleanza intervenire direttamente contro Putin, gli sconfinamenti registrati a bizzeffe in questi anni sono sempre stati dei russi, per lo più nello spazio aereo della Nato). Con l’arrivo della Finlandia, si aggiungono 1.300 chilometri di confine, prevalentemente foreste che però corrono lungo una delle arterie strategiche per la logistica militare russa: una strada e una ferrovia che collegano il mare di Barents, dove ci sono basi militari rilevanti, con il sud e che con l’allargamento della Nato diventano vulnerabili. Non serve un’invasione per sabotare una strada o una ferrovia: bastano dei blitz, ma per la Russia i danni sarebbero ingenti. Un altro esempio, che riguarda il mare: al momento, stando fuori dalle acque territoriali dei paesi della Nato che si affacciano sul Mar Baltico, i sottomarini russi possono arrivare fin quasi all’Oceano Atlantico senza essere intercettati (nell’oceano ci sono i sonar americani). Con l’arrivo di Svezia e Finlandia, le possibilità di nascondersi dei sottomarini russi crollano di molto, al punto che molti si sono messi a definire il Mar Baltico «il lago della Nato».

Se a questo si aggiungono l’avanzamento tecnologico degli eserciti svedesi e finlandesi e i processi di integrazione con gli standard Nato già avviati da molto tempo, diventa chiaro l’errore commesso da Putin. La minaccia prima non c’era, ora volendo c’è. Questa trasformazione non riguarda soltanto l’Alleanza atlantica, ma anche i singoli paesi. Basti guardare la Germania, che dal punto di vista diplomatico-strategico è forse il freno più rilevante all’azione occidentale sull’embargo energetico alla Russia. In questo senso, Berlino sembra il punto debole del fronte occidentale, o di certo il punto di rallentamento. Ma se si va a vedere che cosa è successo all’esercito e alle spese di difesa della Germania ecco che si trova una rivoluzione: ricordate quando Trump si infuriava con gli alleati che non pagavano la loro quota alla Nato (il 2 per cento del pil)? Oggi Berlino ha disposto questi investimenti e altri ancora, sta ristrutturando il suo esercito, sta addestrando soldati ucraini sul suo territorio, sta uscendo, dopo ottant’anni, dal suo senso di colpa storico legato al nazismo. Una rivoluzione politico-culturale enorme, con effetti duraturi – e Putin, non c’è bisogno di dirlo, non l’aveva calcolata.