«Il basilisco di Basilea è uscito dal Reno» disse uno, una notte, in una bettola della zona nota ai santi bevitori come Triangolo delle Bermuda, tagliando corto riguardo alle diverse leggende in giro. A proposito dell’origine del forte legame, già contenuto nel nome, tra Basilea e questo essere da bestiario fantastico medievale: metà drago metà gallo, uccide con lo sguardo. Sbarcato un bel giorno in città, attraverso le scale in pietra che salgono dai bastioni sotto la cattedrale, si è poi nascosto in una fontana. In quale, le opinioni divergono e le storie fioriscono.
Ad ogni modo, i primi basilischi di Basilea (371 m), color verderame stinto, si possono catturare con lo sguardo appena fuori dalla stazione ferroviaria neobarocca, su in alto. Agli angoli delle cupole, sopra l’orologio delle due torri a fianco della grande vetrata ad arco Tudor. Sei in tutto, risalenti al 1907. Alle nove in punto di una bella mattina ai primi di aprile, aguzzando bene la vista, acchiappo così il mio primo basilisco della giornata: appollaiato lassù con lo stemma cittadino come scudo.
Camminando lungo Elisabethenstrasse, ne becco un altro, impossibile da vedere se non si sa dove guardare. Nascosto ai passanti, si trova sulla fontana, alle spalle della graziosa Santa Elisabetta di Turingia, scolpita da Heinrich Rudolf Meili nel 1863. In bronzo, cresta punk, bargigli pendenti come payot degli ebrei ortodossi, lingua fuori, collo lungo da cigno, ali da acquila, e tra le grinfie, lo stemma di Basilea: qui da vicino si vede il bastone pastorale stilizzato che a me incomprensibilmente ricorda sempre l’alfiere degli scacchi.
Come pendant della bestiaccia-mascotte della città, ai due lati, sotto la statua della santa con la brocca in mano e il pane sotto il grembiule – protettrice di panettieri e mendicanti – ci sono due cigni che sputano acqua. Il basilisco guarda in direzione dell’Atlantis. Locale nato nel 1947 dove, tra leggende del jazz e viaggi lisergici, vivevano due alligatori – Hector e Hulda – e la cui insegna, da qui, sembra raffigurare proprio due basilischi simmetrici in oro.
Lo sguardo assassino del basilisco è ben rappresentato da quello monumentale all’inizio del Wettsteinbrücke. Opera del 1880 di Lukas Ferdinand Schlöth, è l’unico superstite dei quattro che facevano la guardia al ponte fino al 1936. Anno della diaspora: uno finisce a Meggen, su un piedistallo di roccia che guarda il lago dei Quattro Cantoni, un altro è stato rintracciato nel giardino di una casa di vacanza nella Foresta Nera, il terzo è dentro un’aiuola di una palazzina in Schützenmattstrasse numero trentacinque. Cinquanta tonnellate, color verde vomito, ali da pipistrello, l’aria cattiva. L’aria di primavera, almeno, con le prime magnolie e i cinguettii, rallegra un po’.
Cesellati nell’arenaria rossa, cerco quelli della cattedrale. Millenari si arrampicano su uno spicchio del portale di San Gallo. Il muso sembra però più drago, draghesche anche le bestioline su un capitello di un’arcata dentro, mordono una figura allarmata. Dalla bocca di un altro, sul capitello del coro, un personaggio viene salvato per un braccio dall’eroe con la spada di una saga norrena. Forgiati, si scovano altri basilischi ancora, tra i ghirigori e altre figure grottesche dell’inferriata sopra l’entrata del municipio fantasista di un rosso mattone intenso. Qui, tra cani a pois, pappagalli, salamandre, è uno zoo.
Caccia grossa: aggrappato sotto una mensola trovo il basilisco-uroboro che si morde la coda ed è, lo sanno anche i polli, simbolo di tutto ciò che tende all’infinito. Vagabondando con gli occhi ne scopro due, speculari, accucciati agli angoli dell’orologio. In realtà, guardando meglio, uno è un drago tradizionale, sboccia così l’antagonismo drago-basilisco. Salendo le scale acciuffo un basilisco intarsiato su in alto, verso il soffitto, si volta come i gechi visti di notte in camera sulle isole. Da questa posizione, un po’ come una morchella che si rivela di colpo nel sottobosco, ecco il minibasilisco tutto d’oro, finora mimetizzato sopra l’elmo della statua di Lucio Munazio Planco. Tardocinquecentesco, vanta la postura più originale di tutti i diciassette cacciati fin qui: da sfinge.
D’oro, con le sembianze quasi da pollo, è anche quello del Les Trois Rois, prestigioso hotel cinquestelle affacciato sul Reno. Oltre il ponte, in ghisa verniciata di verde Wimbledon e verdino Kermit, si trovano i basilischi sulla casetta meteorologica. In Claraplatz dal 1892, l’artefice è Josef Schetty, fondatore della più grande tintoria di Basilea, ai tempi. Il mercurio segna sedici gradi. Potremmo ora andare a trovare i miei preferiti forse, sulla fontana del tridente, però è in restauro.
Ci sarebbero i basilischi dell’Augustinerbrunnen, una delle tre più papabili, oltre alla Dreizackbrunnen citata e la Gerberbrunnen, come suo nascondiglio. Oppure quelli che sputano acqua delle ventotto fontantelle seriali, sempre in verde Wimbledon, ideate a fine Ottocento da Wilhelm Bubeck – morto giovane in un incidente ferroviario – ancora sparse per la città. Eppure ora c’è una necessità di Reno. E in riva al Reno, mangiando fragole, mi accorgo che anche in mezzo al Mittlere Brücke, c’è scolpito l’ennesimo basilisco, simbolo alchemico dell’amalgama. Rilascio la mia erranza cacciatrice dello sguardo – rapito di recente, per mesi, dalle figure del fantastico presenti nel paesaggio – nella corrente del Reno che da sempre, senza dire un bel niente, risolve.