Un pomeriggio di fine settembre, verso le cinque, mi metto a mollo nella pozza di Leonardo. L’acqua termale, proveniente dalla sorgente Cinglaccia (1280 m) situata qui vicino, sgorga da un tubo attorno ai trentasette gradi e scroscia sul collo di un ragazzo del posto, a mollo con due suoi amici che condividono con me le terme libere di Bormio. Una pozza tra i sassi, sulla riva sinistra dell’Adda che scorre ancora infantile qui a fianco, battezzata in onore di Leonardo da Vinci per via dei bagni di Bormio citati nel Codice Atlantico (1478-1518). E proprio per studiare il corso dell’Adda, nel 1493, per conto di Ludovico il Moro, Leonardo viene qui in visita da queste parti. Pozza Leonardo da Vinci c’è scritto, in corsivo colorato stile hippy, su un tubo arrugginito in disuso. Sull’altro tubo, sotto, rivoli d’acqua escono dai tagli fatti apposta, perdite vincenti che accolgo sul collo. Per contrasto, appena fuori, piedi nell’Adda color azzurro glaciale: torrente guadabile però già chiamato fiume che sarà l’emissario del Lario (domanda classica da cruciverba).
Se prima ho fatto il giro della Lüzzina per trovare la pozza di Leonardo, perdendomi nel lariceto a ridosso dei Bagni Nuovi con il grand hotel del 1836 rosa panna, ora in compenso, orientandomi un po’, lascio il sentiero e salgo su a naso nel bosco. Sbuco in un prato dove c’è un bell’edificio in rovina, lì s’imbottigliava la Pliniana, acqua minerale che scaturisce non lontano. Ritrovato il sentiero, passo su un ponticello di legno accanto alla cascata Cassiodora, calda, sulle cui rocce c’è una Madonnina in plastica azzurra e bianca stile Lourdes. La grotta, del 1908, che protegge la fonte Pliniana (1340 m) – dedicata a Plinio il Vecchio che però nella sua Naturalis historia non cita di preciso Bormio e le sue acque come si vuole far credere – ricorda alcune rocaille di certi giardini di ex ville diventati parchi cittadini. Sottovetro si vede la fonte, il cui nome è inciso su una targa di pietra fintamente sorretta da un pezzo di colonna dorica, scendere nella roccia. La raccolgo nelle mani messe a coppa e la bevo d’un fiato. Ottima, trentotto gradi, altissimo contenuto di silice che non ho nessuna idea per cosa serva ma mi dico che male non fa. Credendomi di colpo un camoscio, magicamente, come in un videogame, m’inerpico su verso i Bagni Vecchi. Compare qualche Pinus sylvestris subsp. Engadinensis e incontro una fontanina color ruggine incorniciata dal verde di una pianta tipo trifoglio. È la sorgente di San Carlo (1370 m) o fonte degli occhi: mi lavo dunque gli occhi e ne trangugio una sorsata.
I Bagni Vecchi (1420 m), composti dall’ala dell’ex hotel Belvedere e dalla fortezza medievale, sono a strapiombo. Il connubio tra vasca panoramica azzurra in pietra e la chiesetta di San Martino, è colpo di fulmine. Accappatoio al volo e giù, a mollo in questa vasca in cima alla Valtellina. Distanti alcuni chilometri da Bormio, i Bagni di Bormio costituiscono località a sé, sul territorio di Premadio, frazione del comune Valdidentro. Alle spalle troneggia maestosa la dolomia, illuminata dall’ultimo sole, del Monte Reit. È dalle fratture alle sue falde che scaturisce quest’acqua curativa. «Mica cippalippa» dice uno a proposito del suocero. Schiacciando il bottone verde scatta l’effetto jacuzzi che azzera, benché ci sia poca gente, tutte le chiacchiere superflue. La presenza della chiesetta, come alle terme di Andeer, sacralizza ulteriormente il bagno. Spoglia, umile, la chiesetta di San Martino, la cui esistenza è documentata prima del 1201, è un po’ il cardine dell’Hospitium balneorum gestito un tempo dai monaci e oggi dal gruppo QC – acronimo di Quadrio Curzio-Terme che prima del covid stava per sbarcare a New York. Del resto, prima ancora c’era un tempio dedicato a una divinità celtica delle acque, equiparato ad Apollo, noto come Bormo. Ci passo accanto ora, zampettando a piedi nudi e decifrando frammenti minimi di affreschi quattrocenteschi. Dietro l’angolo, proprio a fianco della chiesa, ai piedi della vigna che si arrampica sulla facciata felicemente stonacata, c’è la vasca dell’Arciduchessa con dentro una ragazza. Una tinozza enorme, nella quale sgorga la sorgente Arciduchessa, dedicata all’arciduchessa d’Austria in visita qui nel 1590.
Entro nei bagni romani ed è un tuffo mistico nel tempo. A mollo tra queste antiche mura scrostate, si tocca forse il culmine dei Bagni di Bormio. Non è stato toccato niente, bellezza brut, naturale, senza interferenze. Due le vasche, divise da un muro con apertura a mezzaluna e due piccoli altri fori rettangolari. Mi sposto nella seconda, con soffitto a volte, chiamata vasca di Cassiodoro. Storico romano che in una lettera del 565, indirizzata al re ostrogoto Teodato, vantava le virtù terapeutiche delle acque bormiensi. L’aria della sera impregnata dai boschi di conifere, inquadrati da una finestra, entra a intrecciarsi con l’odore delle particelle fangose in sospensione. All’imbrunire, una coppia di camosci bruca l’erba qui sotto la piscina dove faccio l’ultimo bagno. Trovandosi nel Parco nazionale dello Stelvio, non hanno nessun timore. Con calma e grazia balzano poi giù nel burrone. Dalle otto alle dieci del mattino le terme sono riservate agli ospiti delle trentasei camere. Alle otto in punto, nell’aria frescolina del mattino, non c’è anima viva. M’immergo nei bagni romani con il vapore acqueo che sale e penso alla sorgente quasi inaccessibile, inutilizzata da sempre, chiamata Nibelunghi.