Ho nostalgia del senso di appartenenza

/ 05.03.2018
di Bruno Gambarotta

Avevo sei anni, stavo imparando a leggere e sul muro di fronte a casa nostra un mattino apparve una scritta in vernice nera: «Morte per chi ascolta Radio Londra!», con un teschio e due tibie incrociate. Dunque c’era chi rischiava la vita per ascoltare le voci che uscivano da quell’apparecchio Siemens a cinque valvole con l’occhio magico per la sintonia. Troneggiava in salotto, posato sul ripiano di un tavolino e solo nostro padre era autorizzato ad accenderlo, manovrarlo e spegnerlo. Un centrino ricamato lo proteggeva dalla polvere. Ho rivissuto la scena nel film di Woody Allen, Radio Days. In seguito sarebbero arrivati i racconti degli internati militari che erano riusciti a costruire con mezzi di fortuna una ricevente e da quelle voci captate fortunosamente avrebbero tratto l’incoraggiamento a tenere duro. Nel pomeriggio del 16 luglio 1948 gli operai che stavano rifacendo il selciato della via sotto le nostre finestre ci chiesero di alzare al massimo il volume della radio, volevano ascoltare la radiocronaca da Parigi con Gino Bartali che stava vincendo il Tour de France e così allontanava il rischio di guerra civile a causa dell’attentato a Palmiro Togliatti.

Noi ragazzi discutevamo per ore su tutto finché qualcuno metteva la parola fine pronunciando la frase: «L’ha detto la radio». Alle sette di sera del 4 maggio 1949 ero seduto sul gradino esterno al negozio da parrucchiera di mia madre quando una cliente ha fatto irruzione gridando: «La radio ha detto che è morto il Torino!». Era una notizia impossibile ma se l’aveva detto la radio doveva per forza essere vera. Nel corso degli anni si sono impegnati in molti per cercare di demolire l’aura sacrale che circonda la voce che esce da una radio ma per fortuna non ci riusciranno mai del tutto. La radio, cento volte data per morta, cento volte è rinata. Se una notizia inaspettata ci sorprende la ricordiamo molto meglio se l’abbiamo appresa nella modalità dell’ascolto, perché siamo stati costretti a fare uno sforzo mentale per visualizzarla. La notizia sconvolgente ascoltata da una radio imprime in maniera indelebile nella memoria le circostanze nelle quali l’abbiamo appresa. Ricordo senza sforzo dov’ero e cosa stavo facendo quando dalla radio appresi che avevano sparato al presidente Kennedy, avevano rapito Aldo Moro, avevano abbattuto le torri gemelle di New York. Se la notizia mi arriva accompagnata da immagini in movimento, la subisco passivamente delegando a qualcun altro il lavoro di allestire la scena. La scelta delle immagini a corredo della notizia non può non costituire un commento interpretativo mentre il semplice ascolto lascia il fruitore libero di collocare la notizia nel quadro del suo orizzonte conoscitivo. Nel panorama dell’ascolto le notizie sono un settore importante ma non esauriscono le sue potenzialità. C’è la musica e c’è l’incanto della voce che si realizza nella lettura dei testi. Sappiamo che nella comunicazione interpersonale ha un forte ruolo il linguaggio non verbale, tanto che il significato delle parole pesa solo per il 12%, il resto essendo costituito dalla postura del corpo, dai gesti, dall’espressione del viso, dal tono della voce. Anche ascoltando la lettura di un testo letterario si attiva una comunicazione slegata dal significato delle parole, ma in questo caso il fenomeno non va a detrimento ma in arricchimento al testo. Possiamo chiamare questo effetto «la musica della prosa», il suo respiro profondo che fa vibrare emozioni fino a quel momento ignote a noi stessi. Se nella solitudine della mia cameretta sto in ascolto di qualcuno che legge un autore a me congeniale (Manzoni, Gadda, Fenoglio) entro a far parte di una comunità di miei simili.

Quanto all’ascolto dell’informazione divulgativa, si tratti di scienza, di storia, di filosofia, di critica d’arte, di religione, l’esigenza di essere chiari costringe a sviluppare un ragionamento diretto, senza quelle deviazioni che in un testo stampato sono le note. A tutto ciò si aggiunga il contro canto dei commenti e delle telefonate degli ascoltatori che crea una forma di comunicazione bidirezionale. Infine, con l’avvento del podcast, cade l’obbligo di sottostare agli orari di trasmissione. Quel bambino che nel 1943 compitava a stento le scritte minatorie, mai avrebbe immaginato un simile approdo. Non sono sicuro che quest’ultimo sia un progresso. Se so di avere a disposizione la registrazione di un programma che prima mi costringeva a sincronizzare i miei impegni, finisco per non trovare più il tempo per ascoltarla. Tutto attorno a noi congiura per renderci fruitori molecolari di tutto, e così viene meno quel rassicurante senso di appartenenza a un gruppo nell’atto di condividere un’esperienza. Ho nostalgia del tempo in cui mi affrettavo a tornare a casa per non perdere Alto gradimento ed essere poi in condizione di commentarlo con i miei amici.