Preda dell’Engadina da mesi, ossessionato per anni dalla ricerca del tea-room ideale, a caccia della cioccolata calda perfetta da una vita, inevitabile raccontarvi oggi qualcosa di Hanselmann. Dal 1894 in via Maistra otto, è un’istituzione di rinomanza mondiale la cui facciata fiabesca cattura già da una certa distanza. Color vinaccia, è decorata tutta a sgraffito. Tranne l’affresco al centro, sopra il portale neorinascimentale a tutto sesto, con quattro figure in stile hodleriano legate al ciclo stagionale del grano. Predomina il motivo circolare, ipnotizzante quando i cerchi s’intersecano tra loro in un movimento geometrico continuo, mentre scorrono sequenze di più piccoli rosoni misti e rosette varie.
Databile al 1913, dicono sia opera di Emil Weber (1872-1956). Leza Dosch, storico dell’arte autore di Arte e paesaggio nei Grigioni (2001), attribuisce però tutto a Ernst Thommen (1891-1976). Artista morto ad Ascona e nato a Giebenach, Basilea Campagna, del quale, l’altro giorno, per caso, ho visto un Paracelsus gigante affrescato dietro l’angolo della farmacia in piazza a Samedan. E comparando le pieghe dei pantaloni del Paracelso, spada in una mano e arnica montana nell’altra, con queste due coppie di contadini, sono molto simili. Comunque, non va preso sottogamba, il ruolo, nell’effetto d’insieme, dell’insegna in stampatello a foglie d’oro su vetro laccato nero: Conditorei Hanselmann.
Partecipa anche molto al colpo d’occhio, la parte subito sotto che sormonta le vetrine ed è forse il dettaglio che preferisco: tendaggi cesellati nel legno chiaro dove il motivo della rosetta è ripreso e intagliato settantacinque volte. In un attimo entro così, attraverso la porta automatica a vetri, per la quinta volta negli ultimi due mesi, da Hanselmann a St. Moritz (1845 m). Località snobbata da sempre che negli ultimi tempi – tra la fonte curativa ultramillenaria, il Trittico della natura di Segantini nella cupola fatta su misura con la luce engadinese che entra dall’alto ed è orientata verso lo Schafberg dove morì per finire di dipingere come si deve quelle montagne, e la cioccolata da Hanselmann – non trovo neanche così male, anzi. Meno gente dell’altra volta, vado a colpo sicuro: un tavolino libero alla finestra, rosa rossa in boccio nel vaso di cristallo.
Tovaglia bianca da ristorante vero di una volta, sedie di legno e pelle martellata color lampone che fodera anche i divanetti, quercia palustre dappertutto alle pareti e pure per rivestire le due colonne che ritmano la grande sala da tè. E vista terapeutica sul lago ancora ghiacciato e spolverato di neve verso la fine di marzo, il bosco misto di cembri e larici che sale su verso la montagna innevata. Immancabile la cioccolata calda servita nel bicchiere di vetro contenuto nel portabicchieri d’argento. Tre tavoli più in là, mamma e figlia idem con panna. La sua fama precede di molto quella contenuta nel bel titolo del bestseller insipido di Rosetta Loy, anche se di sicuro Cioccolata da Hanselmann (1995) l’ha amplificata. Per le torte si va da soli nella parte pasticceria all’entrata e si torna al tavolo con la propria preda nel piattino. L’ultima volta ho preso la sacher ma non è un granché, niente a che vedere con quella dell’Hotel Sacher o del Café Demel a Vienna o da Cucchi a Milano. Il mio vicino di tavolo ha fatto fatica come me a picconare con la forchettina la glassa impossibile. In realtà, al di là delle torte in sé, si dovrebbe sorseggiare la cioccolata calda in purezza, senza interferenze. La cameriera, con una coppia chiacchierona di Monza, si vanta di essere «la regina della pesteda». Specialità di Grosio, in Valtellina, a base di sale, pepe, aglio, timo serpillo, achillea nana, spacciata un tempo a tutto spiano ai clienti dell’Hanselmann finché non l’hanno richiamata all’ordine. Ora ne regala ogni tanto, sottobanco, un vasetto; dice che ha anche provato, ovviamente invano, a farla mettere in qualche cioccolatino.
Finita la cioccolata calda, cedo alla fetta di torta. Alle fragole, onesta ma niente di speciale. Non c’è niente da fare, le torte non sono all’altezza dei cioccolatini che valgono invece la pena. Nel tragitto per andare a prendere una fetta di torta, perlomeno, si passa via dall’angolo dove ci sono incorniciati i due ritratti a olio dei fondatori. Fritz e la moglie Theresia, emigrati entrambi dal sud della Germania: Crailsheim e Langenargen. Per fare prima il panettiere al Kulm Hotel e la cameriera in una famiglia di Coira. Oggi, questa pasticceria-confiserie e caffè storico in stile viennese, soggetto di un reportage del «New York Times» nel febbraio 1986 dove come cavallo di battaglia si identificavano anche – solita nusstorte a parte – i praliné, è alla quarta generazione. Oltre al sorriso sotto i baffi di Fritz Hanselmann ne rimane il monogramma, sul bordo dorato del piattino, con in mezzo il logo tratto dalla fontana di San Maurizio qui vicino, nella piazza. Da lì la prospettiva inquadra anche la facciata laterale sempre decorata tutta a sgraffito con tanto di bovindo e stambecco scolpito. Un corgi gallese in grembo a una moglie dimenticata lì dal marito pokerista, assaggia entusiasta la panna della cioccolata.