Per chi come me ha frequentato per una vita l’ambiente, e per chi ha figli a scuola, questi sono i giorni di una domanda ricorrente: «che cosa farete durante le vacanze dei Morti?».C’è una grande dolcezza in questo interrogativo che riesce ad avvicinare un momento piacevole alla presenza silenziosa dei Morti. Perché sì, quella dei nostri Morti è un’assenza che sa essere intensa presenza, e non solo in questi giorni.La dolcezza che attraversa queste nostre allegre aperture sul domani, mantenendoci in contatto con la presenza degli assenti, mi ricorda la voce del sacro che sa tenere assieme ciò che la ragione invece separa e misura; mi ricorda il luogo magico che abita la poesia e, in lei, l’intrecciarsi sempre possibile del vivere e del morire.
Eppure lo scorrere del tempo scandisce un prima e un dopo e ci costringe, in un certo senso, a separare il vivere dal non vivere più. Quest’altro volto dell’esperienza è ben presente nelle parole del filosofo greco Epicuro, parole che invitano a trasformare la paura procurata dell’attesa della morte in una sua serena accoglienza. «Abìtuati a pensare, scrive al suo allievo Meneceo, che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte non è che la sua assenza. La coscienza che la morte non è nulla per noi rende godibile la mortalità della vita».
Sono parole che riescono a custodire tutta l’intensità dell’intreccio di presenze e assenze, e questo proprio perché aprono una distanza incolmabile tra la morte, come evento che interrompe la vita, e i Morti che possono continuare ad abitare la vita e il suo sentire.Anche gli stoici ci offrono straordinarie parole di una saggezza antica che ancora oggi può accompagnarci nell’affrontare le vicende che attraversano i nostri giorni, invitandoci ad esserne protagonisti: il saggio ci invita a volerla la vita, non a essere voluti da lei. Quanto avremmo bisogno di questa forza interiore, di un coraggio esistenziale che ci riporti al senso profondo delle nostre individualità, oggi annacquate da tanti miseri individualismi!Con questa forza che sboccia dentro di noi, diventa possibile riconoscere il valore del vivere anche nella sofferenza, anche nel dolore della separazione.
Lo stoicismo offre molte voci interessanti, dalle radici greche all’epoca della Roma imperiale di Seneca e di Marco Aurelio. Tra questi nomi famosi, vorrei ricordare anche quello forse meno conosciuto di uno schiavo liberato. Si chiama Epitteto e i suoi pensieri, che ebbero nel tempo grande risonanza, prefigurano un orizzonte armonioso in cui le ombre della vita possono trasformarsi in nuove aperture e in sempre nuove fioriture, purché impariamo a tenere sotto controllo solo ciò che dipende da noi. Perché molto di ciò che attraversa i nostri giorni non dipende da noi. Grazie ad Epitteto, qualche dubbio potrebbe affiorare sul nostro desiderio di controllare sempre tutto, ma proprio tutto. Perché da noi dipendono solo le emozioni suscitate da ciò che in realtà accade, e accade perché deve accadere; da noi dipendono solo i significati con cui diamo un nome alle nostre emozioni e ai nostri sentimenti.
C’è come una soglia invalicabile tra ciò che è in nostro potere e ciò che non lo è. La nostra responsabilità comincia e finisce qui: impegnativa e insieme grandiosa nel riconoscere il suo limite e insieme la sua potenza.
Ma quali sono le cose che non dipendono da noi? Duemila anni sono passati da queste parole; duemila anni in cui il potere dell’uomo ha via via preso il sopravvento sul potere del cosmo e sulle sue ragioni. Nel bene e nel male. Quali siano le cose che non dipendono da noi, rimane una domanda grande che arriva da lontano per suggerirci, forse, altre possibili posture nel nostro stare al mondo e nuovi significati per il viaggio interminabile verso noi stessi.
Riflettere su questa soglia significa riflettere anche sul morire. E capire, forse, che la morte accade, ed accade per tutti, lo sappiamo bene. I nostri Morti invece sono, e lo sono per ciascuno di noi. E in questi giorni in cui fioriranno i giardini dei ricordi, questa soglia ci invita ad accogliere la nostalgia di un’assenza dentro un’intima presenza. Così, tra i colori delle case dell’anima, potrà fiorire la pienezza del vivere oltre l’attimo vissuto, in un abbraccio cosmico.
«Le nostre lacrime più sacre non sgorgano mai dagli occhi – scrive Kalhil Gibran – la tristezza non è che un muro tra due giardini… o forse una finestra che si apre nella parete ad oriente della tua casa».