Si dice (è quasi una banalità) che ormai in tutto il mondo si parli inglese. Un momento: si parla un inglese che sta a quello del Bardo come il muggito di una vacca sta al Rigoletto di Verdi. Due o trecento parole bastano ed avanzano per andare dappertutto, col paradosso che l’inglese di Sua Maestà lo parlano ormai in pochi e lo capiscono ancora in meno. A chi come chi scrive è capitato di lavare i panni nel Tamigi per una trentina d’anni ed impiega termini desueti anche per i sudditi isolani è già capitato di sentirsi dire che non parla inglese-inglese bensì una strana variante arcaica difficile da comprendere. Tant’è: quando uno studente giapponese dell’Università di Kobe mi spiegò che la sera, al party conclusivo del corso al quale avevo contribuito come docente, si sarebbero mangiati gli gnocchi fatti dagli studenti stessi sotto la guida di un mio collega, pure lui italiano, credevo di non aver capito. E invece era proprio così.
Per una qualche ragione il professore in questione se ne era uscito con l’espressione «ridi ridi che la mamma ha fatto i gnocchi» (sì, con la «i» come da modo di dire originale) e pure l’aveva condita con una ricca esegesi. Non chiedetemi come mai si fosse arrivati lì né tantomeno in che modo il detto fosse stato tradotto in inglese internazionale. Fattostà che la cosa (il concetto?) aveva fatto colpo sul corpo discente al punto che gli studenti avevano richiesto a gran voce che «gli gnocchi» diventassero la pièce de résistence del menù serale. Al mio collega il coraggio non manca: andare in giro per Kobe alle cinque di pomeriggio a cercar di comprare patate e farina di frumento per fare gli gnocchi della mamma è impresa non da poco. Le patate, quando si trovano, vengono vendute in sacchettini griffati molto design che contengono due-tre tuberi in formato mignon. E la farina di frumento – in Giappone – è rara come le cartacce per strada. E fu così che l’appartamento che ci ospitava per la festa di fine corso divenne una fabbrica di gnocchi. Organizzazione capillare nipponica, studenti in squadre miste allineati che poco ci mancava ciascuna cantasse il suo inno, il Professore a dar ordini e spiegare le meraviglie della dieta mediterranea – e via: in men che non si dica c’era farina dappertutto.
Tanto tuonò che piovve: gnocchi di patate a centinaia che sembravano non finire più. Credo che i nostri studenti, adusi ad una dieta parca, parchissima e minimalista, non avessero mai mangiato tanto in vita loro. Eccetto alcuni. Uno in particolare mi aveva colpito: scrutava il contenuto della sua ciotola con atteggiamento di chi non sappia decidersi. Il primo gnocco gli era scivolato dalle bacchette ed era finito per terra. Il secondo era stato masticato lentamente con evidente poco entusiasmo. Solo, in un angolo, faceva un po’ tristezza. Decido di fare il gastrosamaritano (io che, peraltro, dopo aver assaggiato il primo gnocco mi ero per prudenza trincerato sulla linea dei sushi) «Allora? Ti piacciono?». Mi guarda con uno sguardo triste, impallidisce (?) di vergogna poi si ricompone, accenna ad un sorriso e dunque s’inchina: «Veryverygood! Buonissimi! Straordinari! Superlativi!» – e comincia a far viaggiare le bacchette a velocità supersonica. Ciotola svuotata in un’amen. Mi sembra patriottico spezzare una lancia a favore della cucina mediterranea e dico: «Guarda che non sono proprio come dovrebbero essere…». Mi guarda un po’ sospettoso, da sotto in su. Carico l’asso: «…forse perché non li ha fatti la Mamma». Sorride e sembra convinto. Lo lascio sollevato.
E convinto della sua missione civilizzatrice era anche il Signor Motoyama, che più che uno chef sembrava un Pirata della Malesia, ma cosa ci vuoi fare. La sua specialità era la Cucina Mondiale – World Cuisine. O meglio: lo sarebbe diventata quando in un paio d’anni avrebbe portato a compimento Parte Seconda del progetto che lo vedeva impegnato da anni. Da anni, infatti, girava il mondo in moto (sic) e per mantenersi nei viaggi faceva il cuoco. Aveva così imparato a cucinare 192 piatti delle tradizioni nazionali dell’orbe intero: corroborava la sua Relazione con una diapositiva che esibiva le foto di tutte le 192 frecce al suo arco. Immaginatevi un gigantesco McDonald dove ci siano 192 opzioni gastropornofotografiche naturalmente tutte uguali, come si conviene.
Ora il Progetto entrava nella Parte Seconda: imparati a cucinare i piatti della tradizione mondiale avrebbe cominciato a fonderli gli uni con gli altri (fusion il termine esatto) al fine di produrre la prima autentica World Cuisine della Storia. Mi volto a guardare i colleghi italiani: uno è impietrito, l’altro piange. All’intervallo del Convegno allungo la mia carta da visita al Signor Motoyama: sul retro ho scritto l’indirizzo web con la ricetta degli gnocchi – ma quelli mondiali della Mamma.