Gli aspirapolvere smart e i nostri dati

/ 07.12.2020
di Natascha Fioretti

In questi giorni sto leggendo un libro dello storico inglese James Wyllie. Edito da UTET si intitola Naziste. Le mogli al vertice del Terzo Reich e apre per me uno sguardo inedito su Hitler e il suo ristretto gruppo di fedelissimi, Himmler, Goebbels, Goering e gli altri, i rapporti tra loro e le loro donne. Naturalmente ci racconta come erano queste donne, Magda Goebbels, per citarne una, che alla fine del conflitto fece avvelenare i suoi figli, e quanto fossero animate dalla competizione pur di entrare nelle grazie del Führer. Secondo il giornale inglese «Guardian» «James Wyllie racconta le storie delle mogli dei gerarchi costruendo un prisma inedito attraverso il quale guardare al periodo nazista».

Se il tema vi interessa sapete cosa fare, il motivo invece per cui ho deciso di parlarvene è molto preciso e riguarda questo passaggio: «Il 12 marzo 1938 a poche ore dall’ingresso indisturbato delle truppe tedesche in Austria, Himmler e Heydrich arrivarono a Vienna. Si stavano preparando da mesi. A loro disposizione avevano le informazioni raccolte sui potenziali oppositori al nazismo: ciò che restava della sinistra, cittadini prestigiosi che avrebbero potuto arrischiare una resistenza, intellettuali, scrittori e artisti con un curriculum sospetto. E poi notizie dettagliate sulla vasta comunità ebraica  - concentrata a Vienna - e soprattutto sui componenti più ricchi dei loro giri d’affari. Sin da quando aveva formato l’unità di controspionaggio, Heydrich era stato in grado di comprendere il grande valore delle informazioni. Aveva cominciato quasi subito a compilare una raccolta di schede contrassegnate con colori diversi che contenevano dettagli precisi su alcuni individui di particolare interesse. Questo sistema di schedatura che Heydrich archiviava dentro alcuni scatoloni nel suo appartamento di Monaco era cresciuto e ormai riguardava migliaia di persone. Quando lui e Himmler arrivarono nella capitale austriaca tutte le schede più importanti erano state selezionate e i due erano pronti per sfruttare tutto ciò che sapevano».

Ho voluto riportare il testo originale perché ognuno di voi potesse fare le sue riflessioni, in ognuno di voi, queste parole e questi fatti richiameranno pensieri e sentimenti diversi. Nella mia testa hanno risuonato in particolare le parole «schedatura», «valore delle informazioni» e «archivio». Mi sono chiesta cosa sarebbe stato se i nazisti avessero potuto usufruire dei mezzi tecnologici e di informazione che abbiamo oggi. Di riflesso, ora che invece li abbiamo, ho pensato che dovremmo guardare alla storia e imparare a trattarli con cautela e attenzione. Ma forse è già troppo tardi e vi mostro perché.

Iniziamo dagli  aspirapolvere smart. Una grande comodità, non vi è dubbio, fanno tutto da soli. La fotocamera incorporata e la localizzazione simultanea non solo permettono all’aspirapolvere di aggirare gli ostacoli ma anche di mappare con accuratezza casa nostra e i nostri spazi. Per una maggiore precisione vi trascrivo le caratteristiche di uno di questi modelli in circolazione: «Raccoglie tutti i tipi di dati, dalle dimensioni della stanza e dalla posizione del mobile alle distanze tra i diversi oggetti collocati nella stanza, che potrebbero aiutare i dispositivi IoT (Intelligence of Things) di nuova generazione a costruire una vera e propria casa intelligente». Una notizia fantastica. Ma poi cosa succede con questi dati? Vengono forniti a terzi, molti utenti autorizzano la società di aspirapolvere a condividere i dati con fornitori di terze parti e consociate e su richieste governative. Non c’è poi da meravigliarsi se il negozio di arredamenti della zona che sa perfettamente quali mobili – misura, tipologia e via dicendo – ci servono, ci bombarda con della pubblicità mirata.

Se questo è il risultato dell’aspirapolvere pensate quanti dati sulla nostra vita quotidiana e privata possono andare a terze parti sconosciute nel momento in cui chiediamo ad Alexa che tempo fa fuori o il frigorifero intelligente che ci dice di comprare il latte e così via. Il punto è questo: perché dare il consenso alle aziende a trattare i nostri dati e a venderli o inoltrarli a terzi? Perché accettarlo come se fosse una cosa normale? Forse perché essere sorvegliati è diventata un’abitudine o è di moda? O forse perché non riflettiamo abbastanza sulle conseguenze o su cosa significa dare i nostri dati in mano ad altre persone, aziende di cui non conosciamo gli interessi e i fini? Pensateci, ci torneremo nella prossima puntata.