Gli artisti non pensano mai al domani

/ 04.04.2022
di Bruno Gambarotta

Non comparendo quasi più nella scatola televisiva, sono entrato in una sorta di paesaggio nebbioso, dai contorni indefiniti, che andrà avanti chissà per quanto tempo. Sto vivendo la stagione di uno che lentamente evapora. Non sono tanto i giovani a preoccuparmi, loro per fortuna hanno smesso di guardare la televisione e in ogni caso hanno di meglio da fare che sforzarsi di attribuire un nome a un volto nella folla; penso ai miei coetanei, gli anziani, vorrei trovare un modo per soccorrerli senza offenderli.

Stanno passeggiando in coppia sul lungo mare, incrociano un tale che vagamente richiama qualcuno alla loro memoria; uno dei due s’impianta di colpo, spiazzando l’altro che per inerzia prosegue ancora per qualche metro. Nelle rughe sempre più fitte della fronte, negli occhi strizzati, nella bocca semi aperta, leggo il pensiero: «Questo qui lo conosco, ma dove l’ho già visto? Come si chiama? Povero me, sto perdendo la memoria e dire che il geriatra si è tanto raccomandato di tenerla in esercizio!» Provo l’impulso di andargli incontro, di dirgli il mio nome, tranquillizzarlo, dirgli che non è colpa sua, succede a tutti e poi sono io che sto svanendo. Ma come si fa? Potrei andare in giro con un cartello appeso al collo, con nome e cognome in stampatello e un succinto curriculum. Mi dicono che negli Stati Uniti è una pratica comune nei congressi. Preferisco aver a che fare con quelli che mi interpellano e in uno scambio di battute arrivano a mettere insieme un brandello di ricordo.

Se due anziani coniugi mi sottopongono al terzo grado, hanno l’occasione per una bella litigata. Come questa coppia di villeggianti sani, abbronzati, felici, seduti di fronte a me sull’autobus di linea che percorre la via Aurelia lungo i paesi del Ponente Ligure. In una prima fase i due confabulano a bassa voce. Terminata la consultazione lui esorta la moglie: «Dai chiediglielo!». La prima mossa spetta sempre alla donna: «Scusi, con mio marito abbiamo fatto una scommessa: vero che lei è quello della TV e che si chiama Barbagallo?». «Mi dispiace deluderla, ma non mi chiamo Barbagallo, però non mi dispiacerebbe portare un cognome così illustre». Un velo di diffidenza e di sospetto cala sul volto della signora: «Ma se lei non è Barbagallo come si chiama, scusi?». Allungo la mano destra: «Piacere. Mi chiamo Bruno Gambarotta». Il marito trionfa: «Vedi? Avevo ragione io! È Bruno Gambacorta». «Non per fare il pignolo a tutti i costi, ma Bruno Gambacorta non sono io, lui è un bravo giornalista, conduceva su Rai Due la rubrica Eat Parade sul cibo». Il marito incassa la puntualizzazione: «Certo. Lui sì che è bravo. E lei invece come mai è sparito? Sono almeno vent’anni se non di più che non la vediamo alla tele. L’hanno cacciata via? Non faceva più audience? L’hanno scoperta con le mani nella marmellata?» Il mio primo impulso è quello di domandargli: «Non ha mai pensato di farsi una bella flebo di cazzi suoi?» Mi frena il pensiero che forse ignora il significato della parola «flebo». Cerco di parare il colpo: «Veramente qualche passaggio me l’hanno ancora fatto fare… Mi chiamano quando si tratta di rievocare la radio dei tempi di Marconi». Non mi lascia continuare: «Come no. Mi ricordo quella reclame della pasta adesiva per le dentiere. Lei faceva la parte della suora». La moglie vuole riprendere in mano il pallino e rimbecca il marito: «Ti sbagli! La suora la faceva Elio Pandolfi!». Il marito sembra punto da una vespa: «No! Pandolfi faceva la gallina!» Tento una mediazione: «Forse era una gallina che si faceva suora». La moglie non si arrende: «Comunque non era lui! Questo Barbagallo qui è molto più vecchio del tuo Pandolfi!» Il vicino di posto che ha avuto la bontà di riconoscermi si volta verso di me, mi scruta a lungo ed emette la sua diagnosi: «Certo che visto dal vivo, senza il trucco, sembra molto più vecchio. Magia della tivù».

Devo avere inalberato un’aria abbacchiata perché la signora s’informa con una certa delicatezza sulla mia situazione economica: «Ma voi attori, quando non vi fanno più lavorare, c’è qualcuno che vi paga?» La mia risposta è netta: «No! Perlomeno io non sono pagato». Insiste: «Neanche nel caso delle repliche?» «Meno che mai». Diventa severa: «Doveva pensarci, pretendere un contratto per le repliche. Tutti così, voi artisti, non pensate al domani. Almeno ce l’ha qualcosa da parte per la vecchiaia?».