Per nostra fortuna, il governo inglese di Boris Johnson ci ha ripensato (2+ di incoraggiamento): l’algoritmo non darà i voti della maturità. È stato necessario che gli studenti scendessero in strada a protestare, ma alla fine il ministro dell’Istruzione ha ceduto e ha ridato piena dignità al giudizio dei professori. Meglio tardi che mai. Si è rassegnato all’evidenza che l’algoritmo come criterio di selezione avrebbe avvantaggiato i benestanti, cioè gli allievi delle scuole private (che hanno «rating» altissimi), penalizzando i ragazzi che frequentano gli istituti pubblici.
Affidarsi a un calcolo automatico per valutare una persona è l’ultima frontiera (ma, temo, già penultima o terzultima quando questo articolo andrà in stampa) dell’estremismo fideistico tecnologico. Se poi questa persona è un giovane che sulla valutazione dovrà costruire il proprio futuro, siamo al grado definitivo dell’imbecillità senza ritorno.
A questa opzione geniale avevano pensato Johnson e i suoi ministri e c’è voluto il buon senso dei diciottenni per far ritornare sui loro passi quegli allegri futuristi al potere. Per nostra fortuna: perché se l’esempio inglese fosse passato senza resistenze in patria, certamente avrebbe fatto proseliti (e danni) anche altrove. Lasciando a margine il fatto (già in sé gravissimo) che la decisione algoritmica avrebbe ferito a morte il cosiddetto ascensore sociale (per cui i ricchi continuerebbero a salire imponendo ai poveri di marciare sul posto per decreto burocratico-tecnologico), svuotare di autorità i professori significherebbe abbattere nei giovani ogni processo di consapevolezza e di crescita responsabile.
Purché la valutazione non diventi il fine di tutto, come accade spesso e volentieri, ma conservi una funzione educativa, di apprendimento e di autoverifica. Fare dell’insegnante una specie di «influencer» sarebbe nefasto: del resto, di simpatici «influencer» è già pieno il mondo (e la rete) e tutti meritano un equo 1– di scoraggiamento.
Se qualcuno avesse dubbi riguardo alla centralità del professore inteso come guida (quasi una guida alpina da cui dipende l’ascesa, cioè «colui che stando più avanti e più in alto nella salita, trae a sé»), legga Gustavo Zagrebelsky, Mai più senza maestri, edito dal Mulino (5+). Titolo che capovolge il motto del Maggio francese: «Jamais plus de maîtres». Fatto sta che la protesta di Londra dimostra come il buon senso, che i sessantottini aborrivano, sia diventato rivoluzionario.
La resistenza oggi potrebbe partire dal banale senso comune, che si oppone alla patafisica del potere esibizionista e improvvisato (vedi Trump). C’era un tempo in cui il buon senso era di destra, una insopportabile litania conservatrice da vecchie zie (e da padri e madri borghesi): oggi è la destra a non sopportare le regole, le limitazioni, il giudizio pacato e la pandemia lo ha dimostrato a livello planetario. In Italia Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno rappresentato le punte di diamante della «disobbedienza civile» (per mentalità oltre che per opposizione politica): tutto si può (e si deve) fare in nome del commercio, dell’economia e della finanza. Niente limiti, niente legacci.
La senatrice di Fratelli d’Italia Daniela Santanché, proprietaria di una discoteca a Forte dei Marmi, ha voluto coraggiosamente manifestare contro la chiusura delle discoteche decretata dal governo. Il guaio (per lei, 2–) è che ha scelto di protestare ballando nel suo locale e diffondendo quella tristezza sui social. Sicché una rivendicazione a favore della libertà individuale si è rovesciata malauguratamente nel suo opposto, cioè nel più classico degli autogol, una involontaria pubblicità progresso a perpetua memoria contro ogni vaga intenzione di mettersi a ballare pur di evitare anche il più remoto pericolo di ritrovarsi in tanto malinconico squallore su sfondo di piante grasse e di faretti intermittenti tipo festa da crociera per single. Sorrisini imbarazzati e goffi ancheggiamenti, tuta fosforescente simil-mimetica, orecchini penduli e coda di cavallo saltellante sulla nuca. La destra in versione 5.0 non ha nessuno scrupolo nell’infrangere le regole, è diventata godereccia, burlona, trasgressiva, ansiosa di dare il cattivo esempio.
Bisogna abbattere tutti i muri, amministrativi commerciali e legali, tranne quelli etnici che invece vanno eretti per impedire i passaggi di profughi e migranti (la tesi, non importa se palesemente falsa, è che sono loro il fattore più consistente del contagio Covid). Discoteche aperte, confini serrati e porti chiusi. In un’epoca in cui l’umanità si misura con i numeri, gli algoritmi diranno se sarà una strategia produttiva sul piano elettorale (e purtroppo lo sarà).
Dostoevskij non sarebbe d’accordo: in una magnifica pagina di «Le Figaro» (6–, altro che le pagine “estive” di alleggerimento e pettegolezzo che si vedono sui giornali italiani!), Anne de Guigné ha illustrato, a partire da Delitto e castigo e da Il giocatore, il totale disprezzo dello scrittore russo per la borghesia del denaro e per l’«homo oeconomicus». Figurarsi l’odio per il totalitarismo ottuso dell’«homo algoritmicus».