Non erano passati che ventisei anni dalla morte di Shakespeare (1616). Le sue commedie facevano la concorrenza ai suoi drammi per essere beniamini di un pubblico che accorreva al Globe – al Secondo Globe per la precisione poiché il primo era bruciato nel 1613 dopo soli 14 anni di vita – e agli altri teatri che facevano di Londra la Hollywood del giorno, allora come forse oggi. Eppure il 6 settembre 1642, con un atto del Parlamento che era nell’aria da tempo ma proprio per questo colse tutti di sorpresa, tutti i teatri vennero chiusi e le compagnie teatrali diffidate dal proseguire il loro lavoro: insomma, un lockdown che altro che Covid. Si era agli inizi della Guerra Civile ed un clima di puritanesimo serpeggiava non solo nelle fila dei repubblicani ma in tutta la cosiddetta «società civile», conseguenza inevitabile, anche, del clima di austerity e sospetto che la confusione e le incertezze dottrinali non ancora risolte della Riforma aveva esasperato. Se la Chiesa Medievale era riuscita a tamponare in qualche modo la voglia di circenses teatrali del popolo con lo sviluppo del Dramma Sacro, la Riforma aveva passato anche quello al microscopio di un’incipiente modernità per poi dichiararlo incompatibile con lo spirito profondo del Protestantesimo.
L’Atto parlamentare si giustificava con la fosca temperie della Guerra Civile che imponeva «tempi di umiliazione» («times of humiliation») incompatibili con la rappresentazione «di lascivo umorismo ed altre leggerezze». La proibizione incontrò non poca resistenza, tanto da dover essere reiterato l’11 febbraio del 1648, all’inizio della Seconda Guerra Civile. Stavolta il bando imponeva il trattamento degli attori come «rogues» (furfanti, bricconi), la demolizione dei sedili nei teatri e pesanti multe per gli spettatori clandestini. L’avversione per il teatro (e con esso di ogni forma di rappresentazione mimetica della realtà) ha una lunga storia e certo non finirà coi Talebani. Già Platone, in piena fioritura di una delle più nobili e longeve creazioni della cultura occidentale si era opposto al teatro. Nella Repubblica, Platone esprimeva la sua contrarietà al teatro motivandola con ragioni filosofiche e morali: il teatro è anzitutto una menzogna che confonde realtà e fantasia. Moralmente è pernicioso poiché suscita nello spettatore simpatie per azioni e personaggi non necessariamente positivi da un punto di vista etico o morale. Rappresenta, insomma, una sorta di oppio dei popoli in quanto fa prevalere il sentimento sulla razionalità.
Per quanto Aristotele avesse tentato di salvare la capra se non i cavoli dalla condanna del suo Maestro proponendo una qualche forma di compromesso (temeva infatti la chiusura dei teatri e la criminalizzazione degli attori in un tempo quando la presenza agli spettacoli teatrali canonizzati era considerata una virtù civica), in epoca romana il teatro era a mala pena sopportato dall’establishment che vi vedeva una pericolosa fonte di dissenso da un lato e di rilassatezza morale dall’altro (ma per favore non chiedete all’Altropologo perché gli spettacoli gladiatorii sì e Sofocle nì). Ancora nel Primo Secolo Cicerone aveva da dire senza mezzi termini che «gli spettacoli drammatici ed il teatro sono immorali». La professione di impresario e di attore era dunque appannaggio di stranieri e liberti i quali trasmettevano il mestiere alla progenie (fatto che durerà fino ai giorni nostri) che operavano ai margini della società dominante e spesso in prossimità di bordelli ed altri luoghi malfamati. Da qui a considerare tutte le attrici donne alla pari di prostitute il passo è – si può comprendere – molto corto.
Come già accennato, il Cristianesimo picchiò forte contro teatro ed attori. La formidabile troika Tertulliano-Crisostomo-Agostino reiterò in sostanza le posizioni di Platone. Agostino era preoccupato specialmente per l’insulsa idolatria del pubblico nei confronti di personaggi ed attori (che peraltro non sembra del tutto fuori luogo a chi abbia guardato cum granu salis anche solo una puntata del Grande Fratello). Il legato platonico sarà sempre duro a morire. Nelle sue Riflessioni giustificava la sua ostilità a tutte le forme di mimesis scrivendo: «Quando copiamo altri, noi abbandoniamo tutto ciò che è autentico a noi stessi a favore di ciò che potrebbe non essere affatto parte di noi» – una forma di inutile e pericoloso gioco di prestigio morale al quale sarebbe stato poi contrario anche Rousseau che vedeva nella predilezione per le falsità del teatro la causa della caduta dell’umanità dallo stato di natura alla corruzione contemporanea. Nel 1660, con la Restaurazione di Charles II, il bando dei teatri venne abolito e Londra si avviò ad essere quella capitale del Teatro europeo che – banditi stavolta Brexit e Covid? – le auguriamo tutti di tornare ad essere.