Giovani svizzeri: traditi dai sondaggi?

/ 06.11.2017
di Luciana Caglio

Sono legati al modello familiare, lui al lavoro lei casalinga, rimangono fedeli a un patriottismo dalle venature a volte xenofobe, sembrano restii ad accettare l’omosessualità, insomma si sta parlando del tradizionalista a pieno titolo. E, inaspettatamente, nei giorni scorsi, si è ritrovata questa definizione riferita ai nostri giovani, anzi ai giovanissimi, i cosiddetti nativi digitali, sottoposti a un sondaggio che dovrebbe meritare credibilità. Appartiene, infatti, all’ambito delle inchieste federali fra la gioventù, che, con la sigla «ch-x», a scadenze biennali, registrano opinioni, abitudini, umori e malumori della generazione a cui il paese affiderà il suo futuro. Si tratta, del resto, di un’operazione storica, addirittura d’avanguardia, se i pensa che fu avviata dalla Confederazione, nel 1854, per valutare, e confrontarle sul piano cantonale, le conoscenze scolastiche delle reclute. Una sorta di esame che, ancor oggi, concerne i giovani di leva: il particolare è determinante. Serve proprio a spiegare i risultati, a prima vista sorprendenti, usciti dall’ultima edizione di «ch-x»: il sondaggio porta alla luce le opinioni di 50’000 uomini, intervistati durante il servizio militare, nel 2012-13, e quello di 1800 giovani donne, scelte casualmente.

A questo punto, l’immagine del giovane svizzero, tradizionalista, passatista, convenzionale cambia, e come, connotati e dimensioni: non rappresenta più una mentalità generalizzata, in evidente contrastato con la realtà quotidiana, ma esprime i sentimenti relativi a una categoria specifica in un momento preciso. Si sta parlando di militari in servizio, quasi condizionati a pensarla così.

Intanto, però, come succede inevitabilmente nella società mediatica, quel personaggio fuori moda, persino un po’ ottuso, ha fatto notizia sul piano internazionale. Prestandosi, involontariamente, all’ironica malevolenza che spesso circonda lo svizzero, anzi lo svizzerotto, sinonimo di goffaggine e arretratezza. Ma al di là di quest’aspetto marginale, l’episodio dei nostri giovani, traditi da un sondaggio, riporta alla ribalta un fenomeno, ben più ampio, sfaccettato, per certi versi ossessionante, qual è la proliferazione delle indagini demoscopiche e l’affidabilità di risultati, basati, in definiva, su un’ipotesi: il campionario degli intervistati dovrebbe esprimere la collettività.

Dubbi legittimi che, tuttavia, non hanno inciso sulla diffusione debordante di inchieste che dovrebbero aiutarci a svolgere, nel miglior modo, i ruoli di consumatori, turisti, lettori, e, soprattutto, di cittadini elettori. Proprio nell’ambito politico, il sondaggio, ha trovato il terreno più favorevole al suo sviluppo e a una presunta autorevolezza. C’è una ragione storica: il successo ottenuto dal suo stesso inventore, George Gallup, che nel 1936, aveva previsto, sul «Washington Post», l’elezione di Roosevelt. E così l’exit poll diventò uno strumento sempre in auge, un anticipatore di tendenze, spesso smentite dalle urne, ma poco importa. In proposito gli esempi si sprecano: dall’elezione di Trump al Brexit e via enumerando un’infinità di casi in cui le previsioni si rivelarono un inganno. A cui si continua a ricorrere. Si deve, persino, parlare di un rito, intenzionalmente propiziatorio, che ha poi creato un filone professionale affollatissimo, i ricercatori alle prese con temi magari campati in aria.

Fatto sta che i sondaggi, a volte, si sbagliano. E per fortuna, sarebbe il caso di concludere, tornando al nostro punto di partenza. Se i giovani svizzeri fossero quelli definiti dall’indagine federale, dovremmo parlare di una sconfitta sociale e culturale di portata nazionale. In altre parole, decenni di lotte per l’emancipazione femminile, per la parità professionale salariale, per la ripartizione dei ruoli anche nell’ambito familiare, sarebbero finite nel nulla. Basta, però, guardarsi attorno, per avere un indizio di segno opposto. Quanti papà spingono la carrozzina.