Pochi giorni fa venivano resi noti i dati rilevati da uno studio del CIRSE (Centro innovazione e ricerca sui sistemi educativi): ne emerge che il 12% di tutti i ragazzi che nel 2008/2009 frequentavano la terza media non ha proseguito la formazione e non ha conseguito alcun titolo post-obbligatorio. È ovvio che per questa folla di giovani la possibilità di un inserimento nel mondo del lavoro risulta molto improbabile.
Sorge spontanea una domanda: ma questi giovani che non proseguono un percorso di studi, che non lavorano, che cosa fanno per realizzare se stessi? Il gusto di lanciarsi nel futuro, di sognare una formazione e una carriera, è stato in genere, nel passato, una caratteristica dei giovani: ora non lo è più?
Probabilmente è così, per una fetta consistente della popolazione giovanile. Occorre peraltro tener conto del fatto che le condizioni sociali della famiglia possono essere determinanti: da un altro studio del CIRSE si ricava che il 55% di tutti i ragazzi che non hanno conseguito alcun titolo di studio dopo la scuola media proviene da famiglie in assistenza sociale; e il 6,12% degli allievi che frequentavano la terza media nell’anno scolastico 2008/2009 ha pure beneficiato, negli anni successivi (tra il 2008 e il 2016), dell’assistenza sociale. Una condizione e una tendenza, dunque, che si trasmettono di padre in figlio.
Ora, è vero che famiglie disagiate possono influenzare negativamente i figli, non motivandoli allo studio e all’impegno. Però è anche vero che le famiglie disagiate di un tempo, almeno fino al boom economico degli anni Sessanta, educavano comunque i figli a lavorare e a faticare sin da piccoli, magari sugli alpeggi o come spazzacamini. Quando i tempi erano ancora difficili, si cominciava ad ammonire i giovani fin da bambini: «Caro mio, se vuoi realizzare qualcosa nella vita, datti da fare. Rimboccati le maniche. Lavora!». Poi è venuta l’età del benessere e il rimboccarsi le maniche è diventata una fatica evitabile. L’assenza di interventi disciplinari in famiglia, nella scuola e nella società ha indebolito anche il senso di responsabilità, l’introiezione di valori, il rispetto delle regole: l’individualismo è prevalso sul senso di appartenenza a una comunità. L’individuo oggi è sovrano.
La tolleranza – o meglio, il permissivismo della nostra società nei confronti dei giovani – si mostra con un esempio vistoso nel caso dell’occupazione dell’ex-macello di Lugano da parte degli «autogestiti». Da 22 anni si sono presi abusivamente un edificio pubblico (prima il Maglio a Canobbio, poi a Lugano) e si autogestiscono – cioè, fanno solo quello che vogliono. Ora il Municipio di Lugano comincia a dire che è tempo che se ne vadano e che restituiscano quello di cui si sono appropriati indebitamente. La loro risposta: «Qua siamo e qua resteremo!». Bell’esempio di rispetto della cosa pubblica e delle norme di convivenza civile.
Certo, c’è molto da elogiare nel fatto che la nostra cultura, nel corso del tempo, abbia sviluppato metodi educativi assai meno severi che in passato. Ma, come sempre accade, quando un cambiamento spinge da una direzione all’altra non ci si ferma in un giusto mezzo, ma si tende a passare all’eccesso opposto. Se prima l’educazione era troppo severa, ora tende ad essere permissiva, o addirittura assente. Anche la tolleranza è una conquista civile: ma se si esagera con la tolleranza si cade ancora una volta nel permissivismo, col risultato di creare frange di popolazione esentate dalle regole e dai doveri a cui tutti gli altri cittadini continuano ad essere tenuti. Si passa così da una giustizia clemente a un’ingiustizia tacitamente tollerata.
Ma, soprattutto, occorre chiedersi se permissivismo e tolleranza giovino davvero ai giovani che se ne approfittano. Dai dati che periodicamente vengono rilevati e resi pubblici non mi pare di poter ricavare conclusioni positive: il numero di trasgressioni commesse da minorenni risulta in crescita costante, sia per quanto riguarda l’uso di sostanze stupefacenti, sia per i reati contro il patrimonio, per la violenza verbale o fisica, per l’infrazione alle norme sulla circolazione stradale e così via. Forse, per aiutare davvero il giovane a crescere come dovrebbe e a diventare, da adulto, un buon cittadino, un po’ meno di tolleranza e un po’ più di disciplina sarebbero auspicabili. Questa non è, ovviamente, una ricetta infallibile; ma, visto che la deriva permissivistica dà questi risultati, non varrebbe la pena di provare a invertire la rotta?