Giochi d'infanzia

/ 17.09.2018
di Bruno Gambarotta

È difficile dire di no ai promotori di un evento organizzato a scopo benefico che richiedono la nostra presenza. Si trattasse di una festa, di un convegno, di un’anteprima, rispondere «no, grazie, ho già un impegno» non è un problema. Ma come si fa a vanificare la nobiltà di una missione senza sentirsi in colpa? Gli organizzatori lo sanno e, nella granitica certezza di essere dalla parte giusta, adottano un piglio autoritario, assente oramai altrove. Nel sotto testo della convocazione è presente una minaccia: se rifiuti sarai considerato un verme egocentrico.

Ecco perché mi sono sentito in dovere di accettare la proposta, o meglio di ubbidire all’ordine emanato da benemeriti di un associazione dedita ad alleviare la triste condizione degli anziani ricoverati nelle case di riposo. «Abbiamo scoperto che i nostri vecchietti ricevono stimoli positivi se li esortiamo a rievocare i giochi della loro infanzia. All’inizio sono bloccati, nessuno osa iniziare, c’è bisogno di qualcuno venuto da fuori che dia l’esempio». Così eccomi qui a riordinare le idee e a mettere in fila i ricordi. Cominciamo a dividerli in due grandi famiglie, i giochi da casa e quelli da strada, avendo avuto la fortuna di nascere in un tempo in cui si poteva giocare nelle vie e nelle piazze dei nostri paesi.

Se penso ai giochi da casa mi viene in mente la parola «balsa». Dal dizionario Garzanti: «legno molto leggero fornito da un albero dell’America centrale». La balsa è collegata al Traforo e qui i ricordi si velano di malinconia. Avvicinandosi le feste di Natale, mio padre non ha mai voluto sapere quali fossero i miei desideri: «i regali devono essere una sorpresa». In effetti, mai ho sognato da ragazzo di giocare con il Meccano o con il Traforo. Mio padre invece sì, infatti ci giocava lui. Avevo l’autorizzazione a iniziare ma alla prima incertezza o errore (il controdado di una vite allentato nel meccano, nel traforo la rottura di un seghetto nel taglio della stramaledetta balsa), lui mi sfilava il gioco dalle mani: «Ti faccio vedere come si fa». Non erano previsti esami di riparazione, da quel momento diventavo un annoiato spettatore delle imprese paterne. Anni dopo mio padre ci ha descritto la sua vita da ragazzo nella famiglia di un padre litografo e di una madre sarta, con nove figli, cinque dei quali morti in tenera età.

Durante le scuole elementari era spedito a casa di un compagno per aiutarlo a fare i compiti. In quella famiglia benestante quel ragazzo affamato che sarebbe diventato mio padre faceva onore a sontuose merende. Terminati i compiti, i due compagni giocavano, al Meccano o al Traforo. Se il bambino ricco si accorgeva che mio padre si appassionava al gioco glielo sfilava di mano e pretendeva di passare ad altro.

Tornando ai miei giochi, si svolgevano per la quasi totalità fuori di casa, qualunque fosse la stagione. D’inverno a combattere a palle di neve, talvolta con pietre avvolte da uno strato di neve compatta. Il nostro portone si apriva su una strada in discesa. La sera, prima di andare a letto, uno di noi scendeva in strada al buio a versare sul selciato del marciapiede un secchio d’acqua che, ghiacciando nella notte, diventata una meravigliosa pista di pattinaggio. E pazienza se qualche adulto, andando al lavoro, si esibiva in spettacolosi e involontari capitomboli.

Con la bella stagione era la volta del gioco del portafoglio. Vecchio, consunto, gonfio di carta straccia, con una banconota da cinque lire a spuntare fuori. Deposto sul marciapiede all’altezza della grata della nostra cantina, assicurato con un cordino invisibile, era l’esca per ignari passanti. Lo avvistavano, si bloccavano, si guardavano intorno per controllare che nessuno li vedesse, si chinavano fingendo di allacciarsi una scarpa e, quando la mano rapace scattava a ghermirlo, era il momento di tirare la corda e farsi grasse risate a spese degli adulti. Il re dei nostri giochi da strada era «tana, liberi tutti». Uno di noi stava sotto e, rivolto contro il muro, contava fino a dieci. Tutti gli altri correvano a nascondersi. Il gioco consisteva nell’arrivare a toccare tana senza farsi acchiappare; chi ci riusciva gridava «tana, liberi tutti» e con quel gesto affrancava i compagni.

Potrebbe essere il format di un gioco televisivo. Per esempio un quiz: cinque o più concorrenti devono rispondere a domande di difficoltà crescente per arrivare a vincere un premio stabilito. Mettiamo il caso che i primi tre concorrenti diano una risposta errata collocandosi fuori gioco. Tocca al quarto che invece ce la fa. A questo punto può scegliere se tenersi tutto il malloppo (da dividere con il quinto se anche lui supera la prova) oppure dichiarare il «liberi tutti» che rimette in gioco i primi tre che saranno impegnati ad aiutarlo nel dare una risposta giusta alle successive domande e parteciperanno alla spartizione del bottino. È «il dilemma del prigioniero».