È ormai un rito irrinunciabile, una gradevole dipendenza, l’appuntamento che, nei giorni feriali, dopo le 18, mobilita molte famiglie ticinesi davanti al teleschermo per seguire un programma di cui saranno spettatori direttamente coinvolti. Qual è Zerovero, un gioco dove i concorrenti si cimentano con parole: da decifrare e coordinare, secondo criteri sia logici sia stravaganti. Lo conduce Luca Mora, con un’affabilità tutta nostrana. Aggettivo che, qui, non è sinonimo di provincialismo. Definisce la capacità professionale di farci sentire a proprio agio, in una famiglia allargata. Negli studi della RSI, dove i partecipanti affrontano l’incognita di una gara, in cui è questione di memoria, prontezza, cultura generale e fortuna. Mentre, sul divano del soggiorno, gli spettatori si mettono alla prova, attingendo al serbatoio delle nozioni scolastiche e delle informazioni sull’attualità politica, lo spettacolo, lo sport, diffuse da giornali e notiziari.
Il nostro simpatico Luca deve, tuttavia, affrontare la concorrenza degli agguerriti conduttori d’oltre confine che, fra le 19 e le 20, guidano sui canali della RAI trasmissioni analoghe che, grazie a un’inimitabile prerogativa italiana, riescono a scovare veri e propri personaggi da commedia dell’arte. E così la gara diventa spettacolo. Come, a volte, avviene con L’Eredità, affidata a Flavio Insinna, che d’estate cede il posto a Reazione a catena, guidata da Marco Liorni.
Di stagione in stagione, al di là della bravura di conduttori e concorrenti, il filone «parole» si conferma un successo, va di moda. E, come ogni moda popolare, non manca di suscitare reazioni di segno opposto. Scontate, le critiche che denunciano i danni di un tipico fenomeno contemporaneo: la smania di comparire in giochi che banalizzano la cultura. Ma, in questo caso, la saggezza «o tempora o mores» inganna. Qui non si tratta di una pericolosa invenzione di oggi. Le sfide a base di parole hanno alle spalle quasi settant’anni di vita. Un capitolo di storia che ha caratterizzato la nostra quotidianità nei più svariati aspetti, cultura compresa.
Nel 1955, Mike Bongiorno, italoamericano, nato e cresciuto a New York, propose alla RAI una primizia europea: Lascia o raddoppia, un gioco che vide protagonisti cittadini comuni, impegnati non soltanto in una competizione mnemonica e nozionistica. Doveva rivelare conoscenze, frutto di curiosità in settori particolari: poemi omerici, film hollywoodiani, calcio, archeologia, strumenti musicali. Fra i quali il controfagotto, che rese famoso il concorrente in grado di identificarlo.
Non a caso, con Lascia e raddoppia era nata una forma di svago che rispecchiava l’ambizione di farcela, di arrivare, tipica del dopoguerra. Il fenomeno meritò l’attenzione di Umberto Eco: gli dedicò un saggio intitolato, appunto, Fenomenologia di Mike Bongiorno.
Sta di fatto che il giovedì sera l’appuntamento con Lascia o raddoppia accaparrava, quasi all’unanimità, il pubblico italiano e ticinese. A Lugano, come ricordo, i proprietari dei cinema decisero di chiudere sale senza spettatori. Folle di curiosi si assiepavano davanti alle vetrine che esponevano mastodontici televisori accesi. O chiedevano ospitalità nelle abitazioni già dotate di quel magico scatolone.
Non fu un’infatuazione passeggera. Se ne resero conto studiosi del costume e del linguaggio. Gian Luigi Beccaria, nel 1985, decise di scendere, direttamente, in campo con la trasmissione Parola mia, condotta dal presentatore Luciano Rispoli. Si trattava di una gara sui generis: «Il grande gioco della lingua italiana dove si vince sempre». Per dire che qui si esplora un territorio ricco di segreti che ci concerne tutti quanti. Qual è il linguaggio, alle prese con una realtà in incessante cambiamento. L’italiano dell’OK, che subisce l’invasione dell’inglese, veicolato dalla tecnologia e dal divismo americano. E che, con la pandemia, ci ha imposto covid e lockdown.
Impossibile citare i tanti modi di dire imposti da eventi del momento, e poi dimenticati. Nel 68 imperversarono «nella misura in cui» e «la fantasia al potere». Oggi, è la volta di «narrazione», in uso fra i commentatori della guerra. Anche «giovanilismo», «quarta età» e «verdismo» vanno per la maggiore. Mentre i giovani si salutano con «Bro»: cioè Brother. C’è da sperare che esprima un sentimento reale.