Giappone: terzo movimento

/ 10.04.2017
di Cesare Poppi

Terza ma forse non ultima escursione altropologica in terra giapponese a ponderare sui paradossi di quella che l’antropologo Alan Macfarlane, acuto e competente osservatore, ha definito «una civilizzazione preneolitica ad altissimo contenuto tecnologico». Terra di contraddizioni e paradossi certo il Giappone è – e resta. La sua economia del settore primario si basa da sempre sulla coltivazione del riso. La superficie pianeggiante ed irrigabile rappresenta una frazione della superficie totale del Paese, il che risulta in una produzione del nutrimento-base piuttosto bassa. La domanda che alimenta un dibattito ormai centenario è pertanto: perché il Giappone non sviluppò la cultura del riso a terrazzamenti come fecero con grande successo Corea, Cina, Thailandia – ed altri paesi risicoli?

La risposta è complessa e ancor oggi poco conclusiva. Si parla si fattori ecologici: le montagne ripidissime del Giappone sono ricoperte da un suolo fine e poco drenante. Deforestare i fianchi delle montagne avrebbe comportato un aumento esponenziale delle devastanti colate di fango e detriti che, sistematicamente, sconvolgono le pianure all’epoca dei monsoni. A questo va ad aggiungersi l’altro sorprendente dato – stavolta di natura tecnologica – dell’assenza dell’aratro nell’inventario agricolo. Aratro e ruota sono stati gli strumenti vincenti della rivoluzione neolitica nella Mezzaluna Fertile che poi hanno contribuito allo sviluppo delle aree limitrofe del Medio Oriente e dell’Europa. Bene: in Giappone, fino all’affermarsi degli influssi portoghesi fra il XVII ed il XVIII secolo non veniva usata nemmeno la ruota. Tutti i trasporti avvenivano col Cavallo di Sant’Antonio in interminabili carovane di facchini. Sì, perché – vuoi per logica conseguenza, vuoi per effetto domino – la storia economica e sociale del Giappone si caratterizza anche per l’assenza di animali da trasporto – primo fra tutti il bufalo d’acqua e da giogo.

Responsabile di ciò ancora una volta una congiuntura ecologica ostile: la scelta era fra dedicare il poco terreno disponibile alla coltivazione del riso a suon di zappa e olio di gomito, oppure devolverlo al pascolo animale. E, si sa, più la bestia è grossa, più pascolo deve esserle dedicato. Dunque niente bovini e niente ovini: in un clima invernale spesso molto rigido gli unici tessuti protettivi erano quelli derivati dalle fibre tessili vegetali e dalla seta. E questo, per giunta, nel contesto di un’economia termica dove – allora come oggi – le uniche fonti di riscaldamento degli spazi domestici erano certi piccoli bracieri nei quali ardeva la poca, preziosa legna disponibile – altroché gli ottanta e rotti quintali di legna che l’Altropologo riduce ogni anno in cenere a ottocento metri d’altezza. Figuriamoci poi se in quelle condizioni potesse anche lontanamente attecchire quel benemerito salvavite che fu – in tutti i tempi ed a tutte le latitudini – sua Maestà il Porco.

Grande assente pure lui da uno scenario gastronomico nel quale anche figuranti minori quali pollami di terra e d’acqua – per non parlare di conigli e quant’altro – recitano ancor oggi a malapena: quando al Vostro fu servita con grande solennità una zuppa di pollo, quei quattro frammenti di pollo galleggianti in un mare d’acqua calda dovettero essere recuperati con la rete a strascico. E allora mi veniva in mente – altre latitudini ma stesso dilemma esistenziale – quel contadino Ladino Romancio d’alta montagna che raccontava sconsolato come da loro il maiale allevato in casa con ogni cura e togliendo letteralmente il cibo di bocca a grandi e piccini ad un certo punto doveva essere sacrificato – ben prima che raggiungesse il peso da fantascienza dei maiali di pianura: o mangiavamo noi, o mangiava lui: «E dunque…» – concludeva con un sospiro.

Ma, come si dice, al peggio non c’è fine: niente animali domestici, niente concime – resa dei campi di riso compromessa. Si rimediava allora con orinatoi sistemati dai contadini fuori di casa con il cortese invito rivolto ai passanti di farne uso liberale, con mille grazie ed arrivederci a presto. Eppure, nonostante tutto questo – altro paradosso di un paese paradossale – il Giappone ha sofferto molto meno di carestie di quanto sia successo laddove la gente poteva almeno sognare prosciutti e capponi – e qualche volta anche metterci i denti addosso. Quali allora le strategie per fare di necessità virtù? Fino ai tempi moderni il Giappone ha mantenuto un livello di pressione demografica comparativamente basso.

Strategie molteplici e forse di vario merito morale ed etico. Al matrimonio in età relativamente tarda si accompagnava l’abbandono degli anziani in cima alle montagne e la pratica dell’infanticidio: i bambini che non potevano essere nutriti entro i confini stretti della dispensa di famiglia venivano eufemisticamente «rimandati indietro». E poi – e poi tutti consumavano (e mangiano tuttora) quantità minime di cibo derivato perlopiù dal mare – riserva inesauribile che non richiedeva né aratro né ruota. Il risultato è che – senza uova, senza latticini, senza maiali e senza grassi – oggi i giapponesi hanno la popolazione più longeva del globo. Come commentava ieri sera l’Altropologo ai suoi commensali al quindicesimo ordine in uno di quei ristoranti «giapponesi» gestiti da cinesi con la formula: «Tutto quello che puoi mangiare a quindici euro»: «Vi rendete conto che ciascuno di noi stasera ha mangiato tanto quanto quattro giapponesi?! E il bello è che così ci facciamo solo del male…»