Il metodo di ricerca altropologico prevede che le primissime, superficiali impressioni di una cultura nuova e diversa siano cruciali per la comprensione futura. Caotiche, confuse e confondenti che siano, le annotazioni dell’altropologo allo stadio infantile diventeranno cruciali, nella fase adulta della comprensione, per cogliere il senso profondo dell’alterità che apparve in prima battuta opaca, impenetrabile.
Così ragionava il Vostro, ex-post factum, mentre passeggiava nell’area del porto antico di Kobe qualche settimana fa. Porto Garibaldi, sulla costiera adriatica romagnola, è base di una flotta peschereccia seconda in zona solo a Chioggia. Come tutti i porti di mare quello intitolato a Garibaldi è… appunto: un porto di mare. Detriti un po’ dappertutto, avanzi di pescato in eccesso anche della quota parte dei gatti, frammenti di cassette di polistirolo per il trasporto del pesce… insomma: un generale senso di disordine organizzato condito coi versi sgraziati dei gabbiani e quell’afrore di mare un po’ stantio che è – peraltro – parte del fascino di posti come quello.
Bene: a Kobe tutto il contrario. I pescherecci che attraccano in banchina per scaricare il pescato sembrano salotti di un dipinto di Watteau: puliti, lindi spic e span – mancano solo le damine in crinolina. Come facciano non lo si capisce. E nemmeno puzzano di pesce: che lo lavino a mare prima di sbarcarlo? Gabbiani poi pochi o nulla: io dico che sono morti di fame. Insomma, un mistero. Mistero ancor che si infittisce nelle strade dell’angiporto: non una carta, non un frammento, una lattina, un avanzo, una cicca: nada de nada. E, si badi, non si tratta della pulizia – peraltro anch’essa proverbiale da questa parte del mondo – di un Cantone confederato. Si perché da noi – ovvero da voi – ci sono cestini dei rifiuti di ogni foggia, capienza e funzione ogni tre per quattro. Con relativo, discreto ed invisibile esercito di addetti alla pubblica pulizia operativo (suppongo, perché non li si vede mai) nottetempo, come i commando dei marines.
La cosa straordinaria del Paese del Tenno è che di contenitori dei rifiuti di qualsiasi ordine e grado non si vede l’ombra: non un cestino, non un bidone… Come facciano non si capisce. Anche perché se c’è un’attività nella quale i nipponici eccellono è quella dell’incartare qualsiasi cosa nella maniera più complicata ed esteticamente squisita: altroché gli imballi di Christo. Dove finiscano i sei strati che rivestono – in media – una caramella non è dato sapere. E poi: a mezzogiorno e mezza in punto spuntano per ogni dove banchetti volanti che vendono scatole di plastica trasparente con dentro, allineati e coperti, sushi e quant’altro andrà a costituire la magra razione del lavoratore medio. All’una e dieci è tutto finito. Svaniti i banchetti i marciapiedi tornano immacolati.
La prima ipotesi è che i rifiuti vengano consumati. Ma è un’ipotesi che non regge. O forse vengono messi in tasca – ma se così fosse dovrebbero esserci tasche come marsupi, e anche quello è da scartare. La terza è che vi sia un sistema ancora a noi sconosciuto che conosce e può praticare solo chi vive dentro una cultura radicata nella concezione profonda che vede tanto nell’Armonia come rifiuto del disordine e della confusione quanto nel correlato di quella che distingue il Puro dall’Impuro uno dei pilastri dell’Ordine Cosmico. Prendete un giardino karesansui (quello che da noi si chiama impropriamente «Zen»). Qui gli elementi «naturali» che lo compongono sono ridotti all’osso in senso letterale: pietre arrangiate in schemi, alberi potati ed invitati a crescere in un certo modo – il tutto organizzato attorno ai templi Shinto cosicché uno non capisce più bene dove finisca il giardino (il «fuori») e dove cominci il tempio stesso («il dentro»). Che è poi la stessa logica delle culture bonsai: un addomesticamento della Natura che è allo stesso tempo una naturalizzazione della Cultura.
Operazione che si compie secondo un canone estetico ben diverso – mettiamo – tanto dal giardino rinascimentale all’italiana quanto dal giardino-paesaggio all’inglese. Se nel caso occidentale l’intento è di imporre – pur secondo modalità diverse per non dire divergenti, un’ordine culturale sulla natura, l’intenzione giapponese sembra essere quella di creare un terzo elemento che non sia «né di qua, né di là» ma che armonizzi, invece, in una sintesi originale, le due componenti secondo un ordine nuovo. È noto come i giapponesi – al contrario degli «occidentali» almeno dall’ Età dei Lumi – non siano grandi praticanti del trekking – o anche solo delle passeggiate in montagna. Come i giardini, i bonsai e le fioriture primaverili dei ciliegi – la sintesi di cui sopra non è materia di «pratica» (il giardino karesansui si contempla da punti prestabiliti, non si «passeggia») bensì di contemplazione. Da qui – mi sembra di capire – anche la prospettiva «piatta» dei paesaggi delle stampe giapponesi.
Un modo di vedere che non invita a «penetrare la distanza» entrandovi dentro così come succede dal Rinascimento in poi nell’arte occidentale. Piuttosto ci si immagina un «punto di vista» che tale rimane, immobile e contemplativo, su di un Monte Fuji sul quale chissà se sia mai salito nessuno…